STORIA
DI UN’ AUTONOMIA di Mariangela Maraviglia Con
il convegno svoltosi a Roma nei giorni 26-28 agosto 1944, nel convento
di S. Maria sopra Minerva viene indicata la nascita “ufficiale”
delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani. L’esigenza
di un’organizzazione che “formasse
solidamente nella
dottrina sociale
cristiana” i lavoratori era nata, come ha testimoniato il
loro fondatore Achille Grandi, fin dai tempi delle prime trattative
clandestine fra le tre correnti cristiana, comunista e socialista per
la firma del “patto di unità sindacale” (9 giugno 1944) e la
costituzione del sindacato unitario, la Confederazione generale
italiana del lavoro. Le
Acli, nell’idea di Grandi, dovevano curare la formazione religiosa,
morale e sociale dei lavoratori cristiani, contribuendo a
salvaguardare la specificità e il patrimonio ideale del cattolicesimo
sociale all’interno del sindacato unitario. Nate
e costituite in ambito cattolico — con il concorso attivo
dell’Azione cattolica e della Democrazia cristiana —, appoggiate
all’episcopato in un evidente disegno “unitario” di rinnovamento
cristiano della società, le Acli ottengono una sorta di investitura
ufficiale l’11 marzo 1945 quando — al termine del loro primo
convegno nazionale in cui sono presenti solo le province liberate —
Pio XII le definisce “cellule dell’apostolato cristiano
moderno”. In
questi primi mesi si sviluppa un forte dibattito tra Acli, Dc e
sindacalisti cristiani per la direzione della corrente sindacale. Lo
stesso Grandi lascia ben presto, nel febbraio 1945, la presidenza Acli
per dedicarsi interamente all’impegno nel sindacato unitario. Gli
succede Ferdinando Storchi, proveniente dalle file dell’Azione
cattolica e sostenitore della funzione presidenziale delle Acli,
sancita poi dal primo congresso nazionale (Roma, 25-28 settembre
1945). L’articolo 1 dello statuto definisce il movimento come
“espressione della corrente cristiana in campo sindacale”. Nel
frattempo per opera di Giulio Pastore, primo segretario delle Acli,
nasce anche il Patronato come servizio sociale per la tutela dei
lavoratori. Fin
dall’inizio le Acli si configurano come un movimento atipico in
ambito cattolico: una presenza cristiana nel mondo del lavoro, sorta
sotto gli auspici della gerarchia cattolica — che concede un
“assistente” nella figura di monsignor Luigi Civardi — ma con la
“particolarità” di una struttura organizzativa autonoma e
democratica. Mentre
matura la crisi dell’unità antifascista e l’esplosione della
contrapposizione tra Est e Ovest. le Acli rafforzano le loro basi
organizzative: i tesserati dichiarati nel 1947 sono oltre mezzo
milione, presenti e organizzati in tutte le province. Il movimento
viene autorizzato a gestire la cosiddetta “mescita per le bevande
alcoliche”, che contribuirà in modo rilevante alla diffusione dei
circoli nelle realtà sociali. Nel
frattempo si sviluppano i servizi e l’informazione interna, nascono
varie specializzazioni — in primo luogo il movimento femminile —
e, per la rottura di un accordo di collaborazione con la Gioventù
italiana operaia cattolica, si costituisce Gioventù aclista. L’ampia
sede di cui le Acli dispongono, in via Monte della Farina n. 64, è
stata messa a disposizione dalla Santa Sede, a cui viene pagato un
affitto simbolico. La
fine dell’unità sindacale Ma intanto — alimentata anche dall’estromissione delle sinistre dal
governo, dallo scontro sul piano Marshall, dal voto del 18 aprile —
cresce la difficoltà e la polemica tra le correnti del sindacato
unitario e si intensificano in ambito cattolico le spinte verso la
rottura dell’unità. In questo senso si indirizza il discorso
pronunciato il 29 giugno 1948 da Pio XII alle Acli. Dopo
l’attentato alla vita di Palmiro Togliatti del 14 luglio e lo
sciopero generale proclamato dalla Cgil, la corrente sindacale
cristiana e le Acli sono ormai pronte a decretare la scissione che è
nell’aria da tempo. Il
congresso straordinario del 15-18 settembre 1948 dà via libera alla
costituzione di una nuova esperienza sindacale che si sviluppa, sotto
l’ impulso di Giulio Pastore, su principi di indipendenza e non
confessionalità: la Libera Cgil, che dal 1950 assume il nome di Cisl.
Le Acli, alla cui guida viene confermato Storchi, si danno la nuova
definizione statutaria di “movimento sociale dei lavoratori
cristiani”. Gli
anni 1948-1950 sono un periodo di grave crisi di identità per il
movimento aclista: persa l’ investitura sindacale,
“dissanguata” l’ organizzazione di moltissimi quadri
dirigenti e militanti a favore del nuovo sindacato — che si pone non
senza divergenze e incomprensioni in totale autonomia di elaborazione
e di formazione —, si nutrono molte incertezze all’esterno e
all’interno delle Acli sulla continuità di quell’esperienza. È
una lettera di Giovan Battista Montini — allora sostituto alla
segreteria di stato — scritta nel settembre 1949 per volontà di Pio
XII che, ribadendo l’indiscutibile opportunità della permanenza e
della missione delle Acli, offre al movimento una nuova investitura e
la forza di riproporsi come “corpo rappresentativo” di tutti i
lavoratori cristiani, “guida e orientamento” per la loro
promozione. Al
terzo congresso nazionale (Roma, 3-5 novembre 1950) il presidente
Storchi può presentare un movimento quantitativamente in ripresa:
circoli, corsi professionali, stampa, varie attività ricreative e
sociali denotano una notevole presenza sul territorio. Il
congresso approva un programma sociale “per una società
cristianamente fondata sul lavoro” e “un metodo di presenza
aclista” che guiderà le Acli per lunghi anni: una azione diretta
“a titolo di movimento” e una azione indiretta degli aclisti
inseriti nelle strutture sociali, in primo luogo il partito e il
sindacato. Al
cuore del movimento operaio Nei primi anni’50, in cui si consuma la parabola politica di Alcide De
Gasperi, la ricostruzione si accompagna alla accentuazione di enormi
squilibri economico-sociali e rinascono tentazioni retrive anche in
ambito cattolico, il movimento unisce il proprio impegno sul
territorio a un vasto moto di ripensamento che condurrà alla
elaborazione di “ideologia della seconda incarnazione delle Acli”,
da allora punto di riferimento ideale, culturale e politico
dell’associazione. Si tratta della “scoperta” del movimento
operaio e del proprio esserne parte essenziale, elemento costitutivo. È
Dino Penazzato, in questi anni vice-presidente, che al primo
“incontro nazionale di studio” (Perugia 1-5 agosto 1952), presenta
una concezione “complessa” del movimento operaio come associazione
dalle molteplici forme — mutualistica, sindacale, cooperativa,
educativa-culturale, politica —, non riducibile a nessuna delle sue
particolari espressioni, ma identificabile con l’intera “classe
lavoratrice” nel suo movimento di “espansione” e di
“elevazione”. Le Acli si inseriscono perfettamente in questa
visione dinamica come “moto autonomo” dei lavoratori cristiani che
opera “in tutti quegli ambienti, in tutti quei settori, in tutte
quelle forme e con tutti quegli strumenti, dove e con i quali sia
necessario operare per causa dei lavoratori”. Su
questa linea di attenzione al movimento operaio si pone, in quello
stesso anno, sia il convegno Per la piena occupazione,
considerata “obbiettivo permanente” della politica economica, sia
l’inchiesta delle Acli milanesi pubblicata con il titolo La
classe lavoratrice si difende, che mette in luce la sistematica
violazione di leggi e contratti e la discriminazione politica dei
lavoratori. Il
quarto congresso delle Acli (Napoli 1-3 novembre 1953) unisce a un
bilancio alto dei risultati — sia organizzativi che elettorali per
il grande numero di parlamentari aclisti eletti nelle liste Dc —,
una ampia piattaforma di riforme sociali da attuare al più presto per
rispondere alle “attese della classe lavoratrice”, come indica il
tema prescelto. Le
tre fedeltà All’inizio del 1954, un’operazione finanziaria sbagliata, che
porterebbe al tracollo economico e politico del movimento e che viene
rimediata dall’intervento determinante di Monsignor Montini, conduce
al cambio della presidenza. Successore di Storchi è il vicepresidente
Penazzato. La
sua linea di attenzione alla Dc — è stato recentemente eletto
parlamentare — favorisce la esplicitazione del “collateralismo”
ed egli stesso viene cooptato nel consiglio nazionale dominato dalla
nuova classe dirigente fanfaniana, vincitrice del congresso di Napoli.
Non si tratta di una scelta di opportunismo, ma della volontà di
valorizzare nel partito “una progrediente dinamica sociale”, come
testimonia il sostegno allo “schema Vanoni” presentato proprio a
quel congresso. Il
primo decennio della vita delle Acli viene celebrato con l’ immenso
raduno a Roma del 1 maggio 1955, solennizzato dalla grande udienza e
dal forte discorso di Pio XII: una vera e propria “presa di
possesso” di quella festa tradizionalmente socialista da parte del
movimento cristiano di lavoratori. Un movimento che non vuole comunque
“dividere ma unire”, come afferma Penazzato nel discorso ufficiale
della giornata, poi sempre ricordato come “il discorso delle tre
fedeltà”: alla classe lavoratrice, alla democrazia, alla Chiesa. L’elaborazione
aclista continua nel congresso del 1955 (Bologna 4-6 novembre) dal
significativo e ambizioso titolo: Un grande movimento cristiano,
guida della classe lavoratrice. Forza sostitutiva del mito
marxista. La vasta eco che suscita nella stampa, con le prime
polemiche e preoccupazioni di quella moderata, sono un segno della
direzione intrapresa: le Acli iniziano a esprimere quella vocazione
egemonica sull’intero movimento operaio che giungerà a maturazione
negli anni ‘60. Di
fronte alla grave crisi del comunismo del 1956 e all’emergere di
fermenti autonomistici nel Partito socialista, le Acli rafforzano la
proposta di un “proprio”, diverso anticomunismo, basato sulla
convinzione che il comunismo sarà sconfitto unicamente da “una
grande politica economica e sociale” realizzabile soltanto nella
democrazia. In questo senso va letto il pronunciamento, dopo le
elezioni amministrative del 1956, a favore dell’ ”allargamento
della base democratica”, prima dichiarazione di apertura a sinistra. Negli
anni successivi si prosegue la riflessione sulla necessità di un
“inserimento” dei lavoratori “nella corresponsabilità e nello
sviluppo dello Stato democratico” (la parola sarà sostituita con la
meno impegnativa “partecipazione” per intervento diretto di Pio
XII), per favorire la quale si ricerca “il massimo di unità tra i
lavoratori” e una omogeneità di presenza degli aclisti nella Dc. In
tal modo si pronuncia il congresso nazionale di Firenze (1-4 novembre
1957), chiudendo la polemica mai sopita con la Cisl e promuovendo una
linea di più incisivo e visibile impegno aclista nel partito
cristiano. Il dibattito sull’incompatibilità
Sarà intorno a questo problema che scoppierà la “seconda crisi”
delle Acli. Alla
fine del 1958, il tentativo da parte di sindacalisti Cisl e aclisti di
dar vita alla corrente di “Rinnovamento”, di cui Penazzato appare
pubblicamente come promotore, scatenerà la durissima reazione della
stampa di destra
cattolica e laica, e in particolare l’accusa di aver creato un
“partito classista” dentro la Dc. Vi sono momenti di tensione e di
incertezza — alimentate anche dalle voci di una inchiesta della Cei
sulle Acli — e un tentativo di chiarificazione da parte di monsignor
Santo Quadri, dal 1955 assistente ecclesiastico del movimento. Infine,
una terza lettera della Cei pone fine alla questione stabilendo
precisi limiti al ruolo delle Acli, che non possono confondersi con
una corrente di partito né ammettere la compatibilità tra la
direzione del movimento e il mandato parlamentare. La
lettera giunge non casualmente in vista del congresso nazionale di
Milano (6-8 dicembre 1959), che si divide sulla risposta da dare e
accoglie infine l’incompatibilità, ma ammettendo una possibilità
di “deroga” che permetta a Penazzato di mantenere l’incarico di
presidenza il tempo necessario per un passaggio non “traumatico” a
un dirigente non parlamentare. In
realtà — a causa delle pressioni ecclesiastiche — egli è
costretto a dimettersi dopo solo tre mesi dalla sua rielezione, il 10
aprile 1960; in un consiglio nazionale drammaticamente spaccato tra
“compatibilisti” sostenitori di Ugo Piazzi e
“incompatibilisti” sostenitori di Vittorio Pozzar, il primo
ottiene una stentata maggioranza. È
l’inizio di una presidenza di “transizione”, anche se darà vita
a iniziative di rilievo, come la celebrazione del settantesimo
anniversario della Rerum Novarum con udienza di Giovanni XXIII,
e numerosi convegni sulle condizioni e i problemi concreti dei
lavoratori: “un bagno nella realtà”, secondo le parole dello
stesso Piazzi. La sua presidenza non riesce tuttavia ad esprimere
posizioni politiche incisive, come nel caso dell’atteggiamento
neutrale tenuto nei confronti del governo Tambroni, appoggiato dai
voti determinanti del Msi. Il ruolo “vulcanico” delle Acli
Dell’area di “minoranza” fa parte Livio Labor — da tempo
protagonista dell’elaborazione culturale e politica del movimento
— che attraverso la rivista Moc. Idee, problemi, dibattiti nel
movimento operaio cristiano, elabora una visione “forte” delle
Acli come “gruppo di influenza ideologica e culturale e di coerente
e autonoma pressione sociale”, capace di lavorare in proprio,
privilegiando l’ “azione sociale diretta a titolo di
movimento”. È
la linea che si afferma al congresso di Bari (8-10 dicembre 1961), in
seguito al quale Labor viene eletto presidente delle Acli. Inizia così
un “nuovo corso”, in cui giunge all’apice la capacità di
proposta politica originale del movimento. Strumento
essenziale diventa la formazione, che fin dai primi anni ‘60 riceve
un enorme impulso sia a livello nazionale che locale: dal 1958 è
aperta una “scuola centrale” per la creazione della “nuova
classe dirigente” delle Acli, mentre gli incontri estivi di studio
diventano preziosi momenti di elaborazione “sulle trasformazioni
della società italiana”. Eredi
della tradizione cattolico-sociale, le Acli di Labor prefigurano uno
scenario di grande riformismo sociale — a cui dovrebbero collaborare
anche Dc e Cisl — che pone al primo posto la “pianificazione
democratica”, insieme all’ordinamento regionale e allo sviluppo
della scuola. È
questa la linea che si afferma con grande successo al congresso di
Roma (19-22 dicembre 1963), a cui interviene anche Aldo Moro, da poco
presidente del primo governo di centro-sinistra. L’udienza ai
congressisti di Paolo VI, da poco succeduto a Giovanni XXIII, e le
parole di stima e di affetto che rivolge loro, costituiscono una
indubbia carta di credito per il mondo cattolico diffidente. Negli
anni successivi, mentre si assiste all’involuzione del
centro-sinistra, nei convegni estivi di studio di Vallombrosa si
analizzano senza pregiudizi le trasformazioni del comunismo italiano,
si inizia a sostenere apertamente l’ unità sindacale, si
rilancia la pianificazione democratica. Su questi temi sorgono le
prime significative divergenze sia con il sindacato che con la Dc —
di cui si paventa “un ruolo moderato e conservatore” — che
emergeranno al congresso di Roma (3-6 novembre 1966). È
il congresso della partecipazione dei lavoratori alla società
democratica, impedita dai canali “intasati”, da riattivare
attraverso pianificazione e riforme. È anche il congresso del ruolo
“vulcanico” delle Acli che, nutrite di “cristiana libertà”,
“coraggio”, “coerente capacità anticipatrice”, sentono di
poter dialogare con tutti i lavoratori. Verso una nuova democrazia
Sono scelte e proposte che continuano e si approfondiscono negli anni che
seguono, anche sollecitate dalle riflessioni sul Concilio Vaticano II
da una parte, dalle lotte operaie e giovanili
del 1968 dall’altra. Si
inizia a parlare di “libertà di voto per i cattolici” e si
continua l’impegno,
sempre più
contrastato dai
vertici sindacali, sulla linea dell’autonomia e dell’unità.
Tra le incomprensioni e le polemiche si sospetta — sulla base della
lettura della Populorum progressio — una “revisione
radicale” dei rapporti tra società sviluppate e paesi in via di
sviluppo. Il
1968 matura la consapevolezza di un “ruolo autonomo delle Acli a
fianco del movimento operaio” e una nuova attenzione alle “forze
del cambiamento”, identificate con le “forze sociali della
sinistra democratica” con le quali si privilegia dialogo e
confronto. Si
intravede una domanda politica che chiede “canali nuovi di
partecipazione per una più diretta democrazia di base”, di fronte
alla quale Labor ipotizza la necessità di una “nuova offerta
politica”. Sono
le elaborazioni che condurranno al congresso “storico” di Torino
(19-22 giugno 1969), il congresso della fine del collateralismo nei
confronti della Dc e dell’acquisizione del principio del voto libero
degli aclisti, proclamato per la prima volta in Italia da una
associazione cattolica. Il congresso sottolinea il “ruolo autonomo
delle Acli” nei confronti di eventuali ipotesi alternative operanti
sul terreno politico-partitico. È
un riferimento trasparente all’Associazione di cultura
politica (Acpol) — fondata da Labor insieme ad aclisti,
sindacalisti, esponenti della sinistra socialista e democristiana —
che darà vita all’esperienza del Movimento politico dei lavoratori
(Mpl). Per dedicarsi al suo progetto politico Labor lascia la
presidenza delle Acli. L’ipotesi socialista A
Torino le tesi di Labor hanno la maggioranza dei consensi. Dalla sua
squadra proviene anche il nuovo presidente Emilio Gabaglio. Le
preoccupazioni e i timori che quel congresso non hanno mancato di
suscitare in ambito democristiano e cattolico sono destinati a
moltiplicarsi ben presto. Con
le lotte dell’ ”autunno caldo”, l’unità con le forze del
movimento operaio acuisce all’interno delle Acli la sensibilità
anticapitalistica e classista, mentre si intensifica l’attenzione
per il marxismo come metodo privilegiato di interpretazione della
realtà sociale. Il
6 marzo 1970 interviene la Cei con una lettera in cui si chiedono
chiarimenti in ordine alla “comunione ecclesiale” del movimento e
si esprimono “perplessità e turbamento” per l’uso di linguaggi
“inconciliabili con la visione cristiana”. È l’ inizio di
un dialogo tra la Cei e le Acli che viene interrotto dopo l’ incontro
di Vallombrosa del 1970, l’ incontro della “ipotesi
socialista”. Rifiutata
sia l’ ideologia marxista come concezione filosofica, sia il
sistema capitalistico, le Acli si impegnano per la costruzione di una
società che favorisca “il massimo soddisfacimento dei bisogni
sociali, la piena realizzazione dell’uomo nel lavoro, la liberazione
integrale dell’uomo”. La convinzione è che “una scelta
socialista, ma autentica, non è incompatibile con la coscienza
cristiana”. Tensioni
e polemiche sono immediate, dentro e fuori il movimento. Monsignor
Cesare Pagani, dal 1964 subentrato a Quadri come assistente, prende
decisamente le distanze, il consiglio permanente della Cei emana un
duro comunicato nel maggio 1971. Ancora
più severo, forse per la fiducia e la consuetudine che lo lega al
movimento, è il richiamo di Paolo VI (19 giugno 1971) che, parlando
del “recente dramma delle Acli”, deplora il nuovo orientamento
che, “con le sue discutibili e pericolose implicazioni dottrinali e
sociali” le ha condotte fuori “dall’ambito delle associazioni
per la quali la Gerarchia accorda il suo consenso”. La
sospensione del contributo economico della Santa sede al movimento e
l’abbandono obbligato della sede centrale che fino ad allora lo ha
ospitato, confermano la vera e propria sconfessione avvenuta. Gli
effetti saranno dirompenti: due scissioni e la costituzione di un
nuovo movimento, il Movimento cristiano lavoratori (Mcl), che avrà un
suo seguito e conseguenze laceranti in alcune province. Una transizione difficile Il dibattito interno porta alla costituzione di tre correnti capeggiate
da Gabaglio, Pozzar, Geo Brenna, con diversi orientamenti culturali e
politici. Nel
successivo congresso nazionale di Cagliari (13-16 aprile 1972), in cui
Gabaglio viene confermato presidente, si decide la modifica degli
articoli 1 e 2 dello Statuto che vengono riformulati più
coerentemente con il reale volto del movimento. Le
elezioni politiche del maggio 1972, di contro al successo dei partiti
tradizionali della sinistra, segnano la fine dell’esperienza dell’ Mpl.
All’interno delle Acli si verifica un confronto politico duro tra la
corrente di sinistra e la corrente maggioritaria, a cui si è
avvicinato anche il gruppo di Pozzar, che punta a un recupero di
immagine ecclesiale e politica delle Acli che rende necessario un
mutamento di vertice. Da
un accordo tra queste due correnti nasce nel novembre 1972 la
presidenza di Marino Carboni che — nell’intento di arginare
scissioni e perdite e ristabilire un miglior rapporto con la Dc e con
la Cei — propone un’immagine di Acli più “neutra”, come
“luogo di incontro” e di “confronto” tra forze di diversa
ispirazione. Nel
corso di questo periodo si lavora all’approfondimento e alla
revisione dell’analisi economica e sociale del movimento, che
conduce alla “scelta di classe” a una più vasta attenzione agli
interessi generali di democrazia sociale e politica, da conseguire
attraverso la “linea egualitaria delle riforme”. Le
tensioni politiche interne non si placano, acuite anche dal referendum
sul divorzio del 1974, in cui le Acli danno di fatto l’indicazione
di voto “libero”, mentre la sinistra e Gioventù aclista — la
cui dirigenza giunge a una vera e propria “rottura” con il
movimento adulto — si schierano apertamente sulle posizioni dei
“cattolici del no”, favorevoli al mantenimento della legge. Nel
corso del successivo congresso di Firenze (10-13 aprile 1975) si
creeranno le condizioni per una ricomposizione e una gestione unitaria
del movimento e la riconferma di Carboni come “presidente di
tutti”. Tuttavia
non si risolve la crisi organizzativa che si evidenzia con l’arresto
della crescita delle adesioni e con un dibattito interno segnato da
punte di grande asprezza. Le
elezioni del 15 giugno 1975, con il crollo della Dc e la grande
avanzata del Pci — votato anche da moltissimi cattolici — spingono
le Acli a un impegno per la valorizzazione del pluralismo delle scelte
politiche in ambito cattolico. Mentre
da parte della chiesa si fanno più insistenti le istanze di
chiarimento sulla obbedienza al magistero da parte del movimento, nel
1976 viene inviato dall’ufficio Cei per i problemi sociali padre Pio
Parisi: sarà l’inizio di un nuovo cammino di fede all’interno
delle Acli. La
candidatura di Carboni a senatore nelle liste della Dc gli impone
l’abbandono della presidenza. La centralità della società civile L’eredità
lasciata al nuovo presidente Domenico Rosati, vice-presidente e da
tempo esponente di primo piano dell’associazione, non è semplice.
Non a caso egli si presenta come presidente non di un movimento, ma di
un “problema”. L’ampliamento
del sistema di relazioni politiche per la costruzione di una “più
larga intesa tra le forze democratiche e popolari”, il superamento
della frattura con Gioventù aclista, la riacquisizione di credibilità
e di immagine ecclesiale favorita dalla partecipazione di Rosati
all’ importante convegno di Evangelizzazione e promozione umana
del 1976, sono i primi positivi passi della nuova dirigenza che tenterà
di riaffermare il ruolo educativo e la forza sociale delle Acli in una
realtà in grande mutamento. Elementi
importanti di questo nuovo corso saranno l’elaborazione di “una
nuova cultura dello sviluppo” (incontro di studio di Riccione, 1978)
e l’individuazione di alcuni “progetti” — occupazione,
territorio, scuola, agricoltura —, la cui attuazione dovrà
rivitalizzare le strutture di base del movimento, in primo luogo i
circoli, e coinvolgere i servizi sociali. Il
congresso di Bologna (15-19 giugno 1978) — che si svolge nel pieno
degli anni di piombo — registra e fa proprio questo impegno nella
prospettiva della creazione dello “stato-espressione” capace di
accogliere ed esprimere le energie sociali vitali. È il congresso
della fine delle correnti e del recupero definitivo dell’unità
interna. È il congresso del ripristino dei buoni rapporti con la Dc,
che sembra avviata al rinnovamento, al cui segretario Benigno
Zaccagnini viene riservata calorosa accoglienza. Gli
anni successivi, contrassegnati dalla fine della politica di unità
nazionale e dall’accordo della Dc con il Psi di Bettino Craxi,
vedono le Acli impegnate nell’affermazione di una propria forte
identità, autonoma da logiche di partito, come polo di riferimento e
di orientamento morale, culturale e sociale. Gli
incontri di studio si avvalgono di interventi culturalmente
qualificati e individuano i mutamenti in atto nella società e nella
Chiesa italiana. “Oltre” al dominio dei partiti emerge la
“centralità della società civile” come elemento essenziale di
“rigenerazione” della politica . per
la casa, la salute, la riforma del lavoro e lo sviluppo
dell’occupazione — diventano centrali nella vita del movimento, in
sintonia con la nuova dirigenza di Gioventù aclista. Forte
di questa esperienza il congresso di Bari (7-10 dicembre 1981) — a
cui giunge anche un messaggio del pontefice Giovanni Paolo II — si
appunta sulla costruzione di “un movimento della società civile per
la riforma della politica”, che si muova lungo le direttrici della
pace, della pianificazione globale, della diffusione dei poteri. Impegni
puntualmente sviluppati nel triennio successivo, in cui si
intensificano le iniziative sulla pace e per il rilancio
dell’occupazione e si elabora l’idea della “convenzione” di
soggetti sociali come articolazione del “movimento della società
civile”, ampiamente praticata negli anni successivi. La
riapertura del dialogo ecclesiale viene confermata, per via indiretta,
dall’udienza accordata da Giovanni Paolo II a Gioventù aclista nel
1982. Il
congresso di Roma (24-27 gennaio 1985), che vede un’ampia
partecipazione di interlocutori politici, sindacali, sociali e
culturali, è testimonianza di un credito esterno ritrovato, ma anche
la presa di coscienza — sinteticamente espressa nelle tre
indicazioni congressuali “pace, lavoro, democrazie” — di essere
decisamente “controcorrente” di fronte alla vittoria delle logiche
partitocratiche e degli egoismi sociali. In
mare aperto L’elezione
di Domenico Rosati nelle liste della Dc porta alla presidenza del
movimento Giovanni Bianchi, confermato nel congresso nazionale di
Milano (30 gennaio - 2 febbraio 1988). Negli
anni della presidenza Bianchi, mentre a livello internazionale si
verifica il crollo dei regimi comunisti, la situazione sociale e
politica del paese entra in una accelerata fase di transizione. Si
assiste alla crisi di un sistema politico che ha governato per
cinquanta anni il paese e alla crisi dello stato sociale che era una
delle conquiste più importanti delle lotte dei lavoratori. La
fine del primato della politica come primato della forma-partito e
l’emergere di nuove soggettività e nuove forme di rappresentanza
impongono la sperimentazione di percorsi originali anche all’interno
delle Acli. Già
al congresso di Milano Bianchi sottolinea la “fase costituente della
società e della politica” attraversata dal nostro Paese, l’ ”emergere
di una nuova cittadinanza sociale”, la necessità di “nuove regole
del gioco” per il ricambio dei gruppi dirigenti e per la
realizzazione di un’autentica democrazia dell’alternanza. Nel
corso della sua presidenza si approfondisce la lezione del popolarismo
sturziano — poi divenuto riferimento comune dei cattolici
democratici — come cultura politica che ha intravisto l’importanza
delle autonomie e del pluralismo sociale, e si guarda con estrema
attenzione all’associazionismo di cui si valorizza la funzione
essenziale tra il ruolo dello Stato e i “limiti” del mercato. Le
Acli, nel linguaggio di Bianchi, si configurano come “lobby
democratica e popolare” e la loro iniziativa si sviluppa su tre
versanti: un forte impulso per la riforma del sistema politico,
l’impegno per la crescita dell’autonomia della società civile,
l’approfondimento della dimensione ecclesiale. Sul
versante politico le Acli organizzano una serie di forum per
rilanciare il ruolo del cattolicesimo sociale e democratico, per
favorire il profondo rinnovamento della Dc, per promuovere le riforme
istituzionali. A questo proposito sono tra i principali protagonisti
della spinta referendaria per la riforma del sistema elettorale. Il
secondo impegno vede le Acli protagoniste di “un polo riformatore
della società civile”. Si avvia l’esperienza dei “cartelli”
per raccogliere i soggetti dell’associazionismo intorno a grandi
battaglie democratiche, come “Contro i mercanti di morte” che si
oppone al commercio delle armi, ed “Educare, non punire” sui temi
della tossicodipendenza. Si convocano importanti convenzioni nazionali
dell’associazionismo e si elabora una proposta di legge-quadro per
un suo adeguato riconoscimento. Per
quanto concerne la dimensione ecclesiale, il congresso nazionale, che
si tiene a Roma dal 4 all’ 8 dicembre 1991, con la grande
udienza papale è un momento indubbiamente memorabile nella storia
delle Acli. È l’episodio più visibile di una ricerca religiosa mai
interrotta, che si è avvalsa della presenza determinante di Padre Pio
Parisi e che è stata particolarmente valorizzata nel corso della
presidenza Bianchi. Gli incontri annuali di spiritualità a Urbino
sono momenti forti di questo percorso “dalla ispirazione cristiana
alla vita cristiana” nelle Acli. “Radicalità evangelica”,
“conversione del cuore”, “una presenza nella politica alimentata
dalla fede nella Parola di Dio”, diventano gli orientamenti
interiori del movimento avviato verso una fase di rifondazione. Alla
fine del 1993 Giovanni Bianchi decide di partecipare alla prima
impegnativa campagna elettorale del neonato Partito popolare,
continuando in un orizzonte diverso la battaglia aclista per la
riforma politica. A
prendere le redini dell’associazione è Franco Passuello, già vice
presidente nazionale: sta a lui portare avanti quel processo di
trasformazione, quell’ ”esodo” verso una nuova nascita che
si compie nell’anno del “giubileo” delle Acli. BIBLIOGRAFIA
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