Vallombrosa 2002

Il welfare che verrà.
La nuova frontiera dei diritti nel tempo delle globalizzazione

           IL WELFARE A MISURA DI FAMIGLIA

          TAVOLO DI CONFRONTO Re-inventare il Welfare per l'Italia che cambia

 

NATALINO STRINGHINI (V. Presidente nazionale delle ACLI)

Ogni volta che veniamo in questa Abbazia impariamo sempre qualche aspetto nuovo della spiritualità e della tradizione del monachesimo benedettino.

La croce, il libro e l’aratro vale a dire il Vangelo, la cultura e il lavoro; sono queste, come sappiamo, le tre direttive su cui si fonda l’eredità spirituale di San Benedetto. Studi recenti, sul catalogo benedettino, hanno messo in luce che in ogni regione dell’epoca c’erano, in media, più di duecento monasteri benedettini. Pensate un po’ quale rete si era creta in tutta l’Italia.  E la situazione in Europa era analoga.

Ma per i diversi Paesi europei ciò che ha agito di più è stata la peregrinatio dei monaci. Il pellegrinaggio era infatti, un motivo ascetico che spingeva i monaci a staccarsi da un luogo per giungere ad un altro. Per questa via i monaci hanno seminato in tutta Europa il Vangelo, con la loro testimonianza di vita e con l’annuncio della Parola. Per il suo dinamismo il monachesimo può rappresentare ancora ai nostri giorni una fonte di ispirazione per la costruzione della nuova Europa.

Un’Europa che è oggi impegnata a scrivere la sua Carta Costituzionale che dovrà essere imperniata su valori fondamentali che assicurino prospettive di sviluppo e un futuro di civiltà.

Nel suo ultimo viaggio in Polonia, il Papa ha fatto riferimento allo sguardo critico con cui tanti osservano e valutano quel sistema «che pretende di governare il mondo contemporaneo secondo una visuale materialista dell'uomo. La Chiesa ha sempre ricordato che non si può costruire un futuro felice della società sulla povertà, sull'ingiustizia, sulla sofferenza di un fratello. Gli uomini che si muovono nello spirito dell'etica sociale cattolica non possono restare indifferenti di fronte alle sorti di coloro che rimangono senza lavoro, vivono in uno stato di crescente povertà senza alcuna prospettiva di miglioramento della propria situazione e del futuro dei loro figli» (Cracovia, 16 agosto 2002)  

Questo sistema che preoccupa tanto il Pontefice non è scindibile dal più ampio fenomeno della globalizzazione che da alcuni anni stiamo imparando a conoscere nei nostri convegni di Vallombrosa.

Siamo partiti con la domanda sulle sorti della giustizia sociale e della democrazia nel tempo della globalizzazione, per poi passare ad analizzare il destino del lavoro nell’era di internet, fino ad arrivare a chiederci come ricostruire dal basso la comunità e la democrazia in risposta alla solitudine del cittadino globale. Un percorso che ha cercato di trovare strade diverse per umanizzare l’economia.

Arriviamo ora a questo convegno sul welfare in un periodo, per la nostra associazione, molto intenso e ricco di eventi, verifiche e riprogettazioni; in particolare la Conferenza organizzativa e programmatica e l’incontro di spiritualità ad Assisi sulla “libertà dei figli di Dio”, che ha posto la necessità di riprendere una consapevolezza più vigile di fronte “agli idoli di questo mondo e ai nuovi imperatori” che rischiano di perpetuare nuove e  più subdole schiavitù. Ma è inevitabile collocare il momento che stiamo vivendo, a pochi giorni dall’11 settembre, nel contesto delle riflessioni e della memoria che in ogni parte del mondo si stanno facendo su quell’evento che ha mutato il corso della storia.

Siamo chiamati ora a valorizzare i traguardi già raggiunti con la Conferenza, in particolare i lavori del quarto laboratorio e la mozione finale, in cui abbiamo parlato di un welfare a misura di giovani e di famiglia, non solo dunque per anziani, ma per tutte le generazioni: un welfare “intergenerazionale”, appunto.

L’udienza con il Santo Padre è stata vissuta da tutti noi come un momento straordinario che ci ha indicato le priorità irrinunciabili del nostro impegno futuro: la valorizzazione della dottrina sociale della Chiesa come fonte della formazione all’azione sociale; un forte impegno contemplativo non disgiunto dalla testimonianza laicale nella storia; l’attenzione al dialogo tra le generazioni, unita ad uno sforzo costante di elaborazione culturale; una lotta per la dignità del lavoro, congiunta con la globalizzazione della solidarietà.

Oggi questo mandato che il Papa ha consegnato alle Acli deve essere incarnato all’interno del processo di globalizzazione che si presenta come “il nuovo nome della questione sociale”.  Partendo dall’attuale convegno di Vallombrosa.

In diversi paesi del mondo sono oggi alle prese con la ridefinizione del welfare state, con la questione della sicurezza dei cittadini. Sentiamo parlare di “tagli alla spesa pubblica”, “privatizzazione dei servizi”, “contrazione dello Stato”.

Nel tempo della globalizzazione sembra veramente di assistere alla “solitudine del cittadino globale”, come si diceva lo scorso anno.

Uno studioso contemporaneo, da noi già altre volte utilizzato, e che ci aiuta a capire quanto sia difficile ricostruire oggi un modello di welfare equo e sostenibile è il sociologo polacco Zygmunt Bauman, l’autore, tra l’altro, di Modernità liquida. Nel suo ultimo libro, pubblicato da poco in lingua italiana, “La società individualizzata” (Il Mulino, Bologna 2002), Bauman si interroga sulla progressiva individualizzazione della società nell’epoca dell’incertezza, a tal punto che l’individuo rimane solo con le sue paure e privo di ogni tipo di sostegno. I tre elementi che indicano simbolicamente l’oggetto del desiderio di tanti individui sono - dice lo studioso - il telefono cellulare, il computer portatile e la valigetta 24 ore. Con questo equipaggiamento il cittadino della società liquida si sente così libero e sicuro da poter anche fare a meno, diciamo noi, di un welfare qualsiasi. Sembrerebbe di assistere alla rivincita del nomadismo, osserva Bauman. Ma sappiamo che le cose non stanno così, soprattutto per la stragrande maggioranza dei cittadini.    

Per questo è tempo di ripensare il welfare in modo nuovo assumendo una prospettiva dinamica e partecipativa, in continuità con ciò che abbiamo chiamato welfare municipale e comunitario. Dobbiamo stimolare processi capaci di far crescere dalle comunità locali, dalle reti di cittadinanza solidale e dall'associazionismo democratico, le nuove forme di tutela e di promozione.

In quest’ottica bisognerà ora trovare percorsi concreti per offrire ai giovani, alle donne, agli anziani e agli immigrati quelle tutele e quei diritti, spesso negati, che spettano loro in quanto cittadini. L’attenzione alle politiche del welfare non è prevalentemente una questione di modalità organizzative, di gestione dei servizi, ma di civiltà in quanto il welfare ha rappresentato storicamente una risposta dello Stato ai bisogni e ai diritti dei cittadini, soprattutto dei più deboli ed emarginati.

Iniziamo il cammino di queste giornate di riflessione allargando il nostro orizzonte. Mons. Giuseppe Betori, Segretario Generale della CEI e Michel Camdessus, Presidente delle Settimane Sociali dei cattolici in Francia, ci aiuteranno a collocare il tema del welfare in una cornice globale che sarà tratteggiata, in riferimento alle minacce e alle speranze degli uomini e le donne del nostro tempo.

 

LORENZO RUSSO (Abate di Vallombrosa)

 

Nel vostro quarto anno a Vallombrosa, noi benedettini vi accogliamo a cuore aperto. La vostra presenza qui è anche un richiamo alla tradizione benedettina dell’ora et labora, che costituisce il tessuto naturale della vita del monaco: nell’ora, nella ricerca di Dio, c’è il valore assoluto che dà senso a tutta la sua vita, ad ogni attività.

Il tema di questo vostro convegno è strettamente connesso alla ricerca di come migliorare la vita della società, attraversata da una globalizzazione che può portare al bene ma può anche peggiorare la vita, specie dei più poveri e diseredati. Proprio per questo occorre recuperare i valori cristiani, il rispetto cristiano dell’uomo in quanto figlio creato a immagine di Dio.

Dopo il Concilio Vaticano II, in Brasile, fra i poveri di San Paolo, cercavamo, con il clero locale e gli altri missionari, di capire come annunciare il Vangelo a chi ha la pancia vuota. Ci siamo concentrati quindi sulle opere sociali; poi, però, dopo 10 anni, la loro fame era passata: ci hanno salutati, a volte senza neanche un grazie. Abbiamo capito quindi che la carità va portata insieme a Cristo, che non c’è un prima e un dopo fra Cristo e le opere sociali. Nel Vangelo di questo sabato si parla di “vino nuovo in otri nuovi”. Questo vino è la vita nuova portata da Gesù Cristo. A noi il compito di rinnovarci per portarlo ai fratelli. È questo il senso profondo dell’evangelizzazione.

 

Mons. GIUSEPPE BETORI (Segretario Generale della CEI)

 

Minacce e speranze per gli uomini e le donne del XXI secolo

 

I.

Minacce e speranze: è ancora possibile sperare, quando le minacce sono così evidenti e apparentemente invincibili? Come interpretare il senso delle minacce, individuarne le radici più profonde, collegarle tra loro nella trama che fa di questo nostro tempo un passaggio così oscuro della storia? E da dove attingere risorse per nutrire di speranza la vita, soprattutto la vita dei più deboli, di coloro – individui e popoli – che sono ai margini di uno sviluppo che sembra tutto travolgere, uomini e cose, nazioni e ambienti?

Sono domande impellenti, a cui la fede non può restare estranea e su cui, anzi, si mette alla prova la pretesa di verità che essa porta con sé. Proprio la lentezza, le ambiguità con cui come uomini di fede ci poniamo di fronte a questi interrogativi – sia nell’analisi sia nelle scelte – costituisce uno dei motivi per cui da più parti ci sentiamo rimproverare un ritardo della Chiesa rispetto al mondo. Molti giungono a denunciare addirittura una sostanziale estraneità, prima constatata e poi magari teorizzata, fino a sentenziare la radicale irrilevanza della fede rispetto alla vita, e quindi il bisogno di estirparla dal cuore dei nostri contemporanei o almeno dallo scenario pubblico delle nostre città, in quanto nociva persistenza di tempi passati.

Questo – occorre dircelo subito – è un problema essenziale per un’associazione che vuole dare rilevanza sociale alla presenza del Vangelo nella storia: non si può pensare di essere cristiani, che animano della loro presenza la società, senza misurarsi anzitutto nell’interpretazione di essa. D’altra parte non saper giudicare il tempo è uno dei rimproveri più forti che Gesù rivolge ai suoi uditori: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54-56). Ci sono segni nella storia che vanno interpretati, come facciamo per quelli del cielo, quelli della natura. A questa interpretazione è legata la decisione della vita e la direzione che vogliamo dare ai nostri progetti.

C’è però da precisare che la nostra lettura dei tempi non è legata ultimamente a questa o quella teoria e analisi economica o sociale, pur utile, ma alla fine irrilevante in ordine al giudizio, a meno che non si scelga l’ottica del determinismo. “Questo tempo” di cui Gesù parla è il tempo messianico, è la storia illuminata dalla sua presenza, è il progetto di Dio che si va attuando nel cammino dell’umanità. Il riferimento a Cristo come realtà interna alla storia, costitutiva di essa, è ciò che qualifica i credenti e la loro missione nel mondo; soprattutto, è ciò che rende possibile sfuggire alla duplice opposta deriva dell’utopia e della rinuncia.

Non ci affascina il mito del cambiamento, quello che ha avvelenato la cultura moderna, per cui tutto cambia e cambiando si migliora, siano le sorti progressive del mondo o l’invincibile sole dell’avvenire. Ma non ci travolge neppure la desolazione del nichilismo contemporaneo, per cui il cambiamento è solo apparente e non c’è un senso da cercare nel volgere delle cose, perché tutto alla fine svela la sua sostanziale inanità.

Creazione e redenzione si legano insieme nella fede cristiana, e fondano da una parte la certezza del senso di un mondo che esce dalle mani di Dio-Amore, dall’altra l’esigenza di dar corpo al dono di una ricostruzione dell’umano dalle ferite laceranti del peccato. Mi sembra che questo sia il primo compito che ci dobbiamo assumere oggi: porci con occhio vigile di fronte al mondo e al suo futuro, con la profonda certezza di un senso che va svelato nella misura della comprensione sempre più profonda del mistero di Cristo nella storia.

Non dice forse Dio ai suoi profeti, e quindi anche a ciascuno di noi: «Figlio dell’uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele» (Ez 3,16)? E non è forse alla sentinella che viene chiesto: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11)?

Questo tempo della notte può essere rischiarato solo dalla luce che proviene dal volto di Cristo. Se vogliamo sfuggire alla cattura o alla riduzione ideologica del cristianesimo, occorre tornare a questa centralità di Cristo per tutta la vita del cristiano, anche per la sua vita sociale. Non a caso i vescovi italiani invitano le nostre comunità in questo decennio a un impegno primario nella contemplazione del volto di Cristo, per affrontare «la corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,1-2).

 

II.

Fin qui circa gli atteggiamenti con cui affrontare il tempo presente. Ma cosa dire dei contenuti? Per tornare alla domande iniziali: quali sono le radici profonde delle minacce e le risorse non illusorie per le speranze?

Provo a raccogliere in una cifra sintetica il complesso delle minacce che assediano uomini e popoli nel nostro tempo. Penso di poterla individuare nella perdita dell’identità personale. Prima ancora della precarietà delle condizioni materiali dell’esistenza, del venir meno delle sicurezze sociali costruite a nostra protezione, della crisi delle condizioni in cui dovrebbe vivere la famiglia, dei mutamenti nella natura del lavoro, del persistere degli squilibri mondiali – o, se vogliamo, alla radice di tutto questo e altro ancora – sta il problema di un uomo che non riconosce più se stesso, perché minacciato da un duplice movimento dissolvitore: nella direzione della frantumazione e in quella dell'assorbimento.

Siamo minacciati nella nostra identità personale. La persona non interessa più a nessuno, frammentati come siamo in tante identità a seconda dei luoghi e delle funzioni: lavoratori, consumatori, fruitori del tempo libero e così via. A seconda di ambienti e ruoli siamo chiamati ad assumere mentalità, progettualità, responsabilità diverse, persino contrastanti.

Non è però solo la società a mettere in pericolo l’unità della persona, ma anche, e forse prima ancora, le scienze. Da esse deriva una tendenza a percepirci soltanto in prospettiva materialistica: saremmo ammasso di cellule intercambiabili grazie all’ingegneria genetica, processi proteinici a cui diamo il nome di mente, interconnessioni replicabili nelle cosiddette intelligenze artificiali. La riduzione della mente a cervello, della creazione a natura, sta ponendo in crisi la tradizionale nozione di persona umana.

Si frantuma l’unità della persona, ma anche quella dei popoli, percorsi dai venti di un particolarismo che disgrega rapporti faticosamente edificati nei secoli, ora rifiutati in nome di un isolazionismo che custodisce privilegi. Lo si vive nel silenzio imbarazzato sui pianerottoli dei condomini nella separatezza dei quartieri, nel sospetto verso chi non condivide dialetto e costumi, nell’egoismo con cui i popoli del benessere si rendono sordi alle esigenze dei popoli poveri.

Ma la frantumazione si incrocia con un processo per sé inverso, di fatto concomitante e aggravante l’esito finale della perdita dell’identità: quello della massificazione. In questo l’utopia dei “lumi” non ha perso il suo slancio: è all’opera ancora l’idea che una ragione, la ragione dei dotti, quella che fa giustizia di ogni autorità che non sia se stessa – soprattutto l’autorità religiosa –, debba assorbire ogni pensiero contrastante e unificare l’umanità sotto il dominio di una verità che non ammette diversità, anche a costo di passare qualche testa attraverso una ghigliottina, qualche corpo in una camera a gas, masse di individui nell’annientamento dei gulag.

Oggi le forme dell’annientamento della identità dell’individuo, delle tradizioni, delle culture e dei popoli sono magari più sottili, ma non meno nefaste. Il pensiero oggi vincente – quello che domina la pagine dei giornali che fanno opinione o i palcoscenici televisivi – vorrebbe che ogni identità fosse sacrificata nell’anonimato della “marmellata” di un pensiero unico, che fa giustizia di ogni diversità in nome di una pace sociale ottenuta con l’eliminazione dei motivi del contrasto. Oppure ci si chiede di percorrere la strada della convivenza delle diversità nel tollerante amalgama di una “insalata” di opinioni: opinioni, appunto, cioè riferimenti privati di ogni pretesa di verità, annegati nel relativismo di una ragione che ha perso la propria meta. Sta qui radicato anche il ripetuto invito al cattolicesimo a non valicare i confini interiori delle coscienze, a non pretendere un ruolo pubblico e civile, a non rivendicare un riconoscibile ruolo nelle radici della nostra storia e nel progetto dei nostri popoli.

Questa globalizzazione del pensiero sta alla radice di una globalizzazione sociale che non rispetta i diritti dei popoli, sia a livello di sviluppo economico che di riconoscimento delle identità culturali, fino a trasferire agli altri i propri problemi e propri valori, con una imposizione che nulla ha da invidiare al vecchio colonialismo. Si pensi soltanto al modo con cui l’Occidente cerca di imporre ai popoli del Terzo mondo i propri modelli di vita, non ultimo con la diffusione delle tecniche contraccettive contrabbandate sotto il nome di diritti riproduttivi e sessuali. Se la prospettiva globalizzante è l’esito della estensione di un dominio, culturale ed economico, è chiaro che in essa le ragioni del più forte saranno sempre vincenti. Altra è la prospettiva comunionale che può partire solo da un desiderio di solidarietà e di reciproco riconoscimento e aiuto: la globalizzazione della solidarietà, o solidarietà globale, a cui ripetutamente invita Giovanni Paolo II.

 

III.

Ma qui siamo già sul piano delle indicazioni di cura dalle minacce e di nutrimento delle speranze. Per concludere cercherò, allora di offrire alla vostra riflessione alcune strade di ricostruzione della identità che aprano ad una autentica comunione. Provo a farlo in forma schematica.

Riprendo ancora un’affermazione dei vescovi italiani negli Orientamenti pastorali per questo decennio:

«C’è [oggi] la tentazione di dilatare il tempo presente, togliendo spazio e valore al passato, alla tradizione e alla memoria» (CVMC, 2).

La perdita della persona e della relazione è strettamente legata alla perdita della dimensione della memoria, che ha privato di ogni spessore significativo il passato. Nuovo sarebbe solo ciò che spazza via il passato e il totale sradicamento dal passato porta a compimento il movimento di liberazione dalle autorità che è una delle radici del pensiero moderno. Giunge così al culmine il processo di autonomia del soggetto, il quale viene svincolato in tal modo da ogni riferimento normativo: io, e io in questo momento, sono norma a me stesso! Tutto ciò comporta la perdita del senso della tradizione e la possibilità stessa della trasmissione di una qualsiasi eredità da una generazione all’altra, così che entrano in questione tutti i processi educativi, familiari e sociali. Entra in questione anche il modello legislativo, svincolato da ogni quadro complessivo di riferimento e piegato a rispondere alle esigenze e agli interessi dei diversi gruppi sociali. Siamo di fronte a un fenomeno con evidenti, preoccupanti riflessi anche nell’ambito della fede e della sua trasmissione: entra in questione il concetto stesso di storia della salvezza e la possibilità di realizzare la consegna della fede da parte di una comunità credente, la “traditio fidei”.

Reagire a tutto ciò significa scoprire che c’è qualcosa prima di noi che sta alle nostre stesse radici e che devo conoscere per poter conoscere me stesso. Di questo “prima” devo mettermi in ascolto. C’è un “prima” di Dio che è decisivo per l’immagine stessa che abbiamo della fede cristiana e della nostra testimonianza nel mondo. E questo “prima” è percepibile solo a partire da un atteggiamento di ascolto, l’ascolto di Dio. Lo stesso atteggiamento di ascolto ci è chiesto se vogliamo salvaguardare un altro pilastro della nostra fede, il nostro stare “insieme”, “con” gli uomini, quel legame che ci fa non singoli individui dispersi, ma membri di una famiglia, la famiglia umana, mediante l’ascolto dell’altro.

Occorre maturare in noi la virtù dell’ascolto. Alle radici della fede ebraica sta una parola, un invito: «She, Ascolta!». È l’invito all’ascolto, l’invito a far memoria della rivelazione di Dio, della sua parola e dei suoi gesti potenti nel tempo:

«Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze… Guardati dal dimenticare il Signore, tuo Dio…» (Dt 6,4-5.12);

E la parola di Gesù, che annuncia la prossimità del Regno, chiama alla sequela e rivela il volto del Padre, richiede ascolto per essere accolta nel cuore e fare frutto. Quando uno ascolta con verità la sua parola accade come del seme sul buon terreno:

«Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno» (Mt 13,18-23).

Occorre porsi in questo atteggiamento di ascolto. L’ascolto di Dio: parola lieve che rapisce come vento leggero solo chi è capace di oltrepassare i rumori degli uragani e delle tempeste. L’ascolto di Cristo: vita che parla, che si mostra nella sua evidenza di verità. L’ascolto della Chiesa: parola che accompagna, facendo memoria ed esortando a salvezza. L’ascolto dell’altro: del suo grido di angoscia, della sua richiesta di aiuto, della sua parola che svela volti nuovi della verità.

 

Riprendiamogli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio:

«Non è cosa facile, oggi, la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa» (CVMC, 2).

Non solo è in crisi oggi la memoria, ma anche la speranza. Il nostro è un tempo in cui è venuto meno il progetto. È tipica di questo nostro tempo la concentrazione sull’oggi come attimo fuggente”, come luogo di una esperienza totalizzante, che si presume possa dare significato ad un’intera vita; la crisi dei progetti umani e la crisi delle ideologie, la cui fine sembra averci condannato a una progettualità sociale di breve respiro e senza slanci; la crisi dell’escatologia, che costituisce la versione credente di questa mancanza di respiro sul futuro.

Occorre recuperare un’ottica di speranza, che eviti però di tradursi in termini di sogno, di proiezione fuori della storia – tali da giustificare l’assolutizzazione di ogni esperienza oltre ogni limite –, ma dia un orientamento alla storia, verso un esito sicuro, l’esito escatologico.

Impegnarsi per la speranza, una speranza concreta che viva nella storia, significa coltivare la virtù della perseveranza. Nei Vangeli vuol dire anzitutto rimanere fedeli nell’attesa della parusìa: «chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato» (Mc 13,9.11.13). Ma nel vangelo di Luca la perseveranza è chiesta per rimanere fedeli nei pericoli cui è sottoposta la fedeltà alla parola, al piano di Dio, nel concreto della nostra storia, per dare testimonianza a tutti che questa storia ha un Signore: «(Il seme) sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (Lc 8,15); la perseveranza non è solo mantenersi fedeli per l’ultimo evento, ma produrre eventi di bene dando frutto quotidianamente secondo la Parola: «Vi perseguiteranno… Avrete allora occasione di dare testimonianza… Sarete odiati da tutti a causa del mio nome… Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,10.12.13.17-19).

Gli Orientamenti pastorali collocano tutte queste indicazioni nella prospettiva del progetto culturale e chiedono la ripresa di un progetto storico dei cristiani nella società. C’è una duplice illusione da superare: la separatezza spirituale e la fuga in avanti utopistica. Decisivo, in quest’ottica, è il ruolo dei laici nel rilanciare il Vangelo come seme di una nuova umanità. Il nostro è un tempo che chiede una nuova seminagione di presenze e di testimonianze.

 

Ma nulla di quanto abbiamo prospettato è possibile se non si innesta sul tronco forte della carità. Non è possibile ripensare noi stessi e la nostra convivenza se non a partire dalla consapevolezza che il futuro dell’uomo e della vita sociale passano attraverso la riscoperta della persona nel suo legame agli altri. Contrariamente a quel che pensava Caino, ciascuno è custode del proprio fratello.

Questa consapevolezza si scontra oggi con la diffusa concezione della libertà ridotta a pura possibilità di scelta, senza alcun riferimento valoriale, se non quello negativo della non incidenza dei miei atti sull’altro, ma senza alcuna responsabilità verso l’altro. Questa concezione della libertà annulla ogni possibile autentica relazione. Ad essa si oppone la libertà cristiana, la libertà che non libera dagli altri, ma per gli altri e si compie nella carità.

L’apporto dei credenti alla speranza del mondo passa attraverso una rinnovata testimonianza della carità. Liberata dalle sovrastrutture pietistiche, ma anche dalle gabbie solidaristiche, la carità va riscoperta nella sua valenza ontologica. Mistero di carità è anzitutto Dio stesso, lui Amore e mistero di relazioni di amore. Mistero di carità è l’uomo, riflesso di questo Dio e costituito come persona in forza della duplice relazione che lo lega al suo Creatore e ai suoi fratelli, ponendolo al tempo stesso responsabile del mondo. Mistero di carità è il legame, la comunione di cui vive e in cui si realizza quel segno di Cristo nella storia che è la Chiesa: uno stare insieme come fratelli, una comunione di affetti e di progetti, soprattutto di testimonianza. Mistero di carità è la proiezione verso l’altro e gli altri, soprattutto i più poveri, il farsi carico della loro vita. Al dono e all’impegno di questa carità dedichiamo la nostra vita.

 

 

Michel Camdessus  (Presidente delle Settimane sociali dei cattolici in Francia)

 

Siamo alla vigilia del tragico anniversario dell’11 settembre dove ciascuno ha creduto di vedere un primo episodio d’un drammatico “choc di civiltà”. Siamo inoltre all’indomani della Conferenza di Johannesburg su cui si discuterà a lungo se sia stato un mezzo successo o un mezzo fallimento, ma che ha dato luogo a grandi frustrazioni nei ranghi di numerosi rappresentanti della società civile. L’orizzonte, dunque, sembra oscurarsi ancora. È questo dunque il momento di parlare di speranze per il nostro tempo? E, pertanto, evidentemente, la questione si pone più che mai: c’è ancora posto nel nostro mondo per la Speranza?

Io non ho grandi titoli per dare risposte, non essendo né sociologo, né teologo, né filosofo, né moralista, ma siccome sono stato invitato qui, e durante numerosi anni della mia vita sono stato chiamato a confrontarmi con i problemi della mondializzazione, vorrei semplicemente, a partire da questa esperienza, che so essere controversa, provare a darvi la mia risposta alla questione fondamentale: Dato che i rischi si accumulano e che la povertà del mondo ci mette di fronte al “rischio sistemico ultimo”, come costruire una speranza?

Mi sembra che occorra partire da un punto di vista il più obiettivo possibile sulle speranze e le.minacce che aumentano e, a partire da qui, cercare il segreto della Speranza. E, poiché, evidentemente, noi lo troveremo, bisognerà anche cercare attraverso quali impegni e con quali iniziative potremo contribuire a dargli tutte le sue chances. Ecco dunque il periplo che vorrei percorrere con voi.

 

  1. Un mondo tra promesse e minacce

 Proviamo, dunque, a esaminare bene queste promesse e queste minacce.

Questo mondo investito dalla globalizzazione sembra, in effetti, ogni giorno, portarci portarci dei vantaggi. Jean Baptiste de Foucauld dice infatti: «Più il mondo si globalizza, più il globale nasce dalle nostre iniziative, meno questo processo è dominabile». L’opinione pubblica lo percepisce e questo nutre la sua angoscia e le sue domande. Queste non hanno cessato di diventare sempre più pressanti anche quando gli ultimi anni del secolo erano quelli d’una “esuberanza irrazionale” dei mercati monetari. È vero che, a guardare più da vicino, la mondializzazione è un singolare miscuglio di rischi e di opportunità. I rischi che questa moltiplica, nutrono la contestazione attuale. Essi non permettono alle opportunità  di superare le perdite e i profitti che (la mondializzazione) comporta; non sarà semplicemente perché bisogna, forse, fare affidamento su di essa per coniugare tutti i suoi rischi? Prendiamo dunque nota delle sue opportunità.

 

Premessa: al primo sguardo, esse sono impressionanti.

 

A partire dagli anni ‘70, gli scambi di beni e servizi tra paesi e continenti si sono pressoché triplicati. L’aumento degli investimenti stranieri diretti ha conosciuto una crescita enorme per attestarsi su un livello annuale superiore ad 800 miliardi di dollari. Questo livello d’integrazione dei mercati finanziari internazionali è senza precedenti nella storia. La crescita del commercio e degli investimenti stranieri diretti ha largamente superato la crescita della produzione mondiale. E’ un segno della prodigiosa intensificazione dell’interdipendenza  dell’economia mondiale.

Il gioco combinato dell’allargamento di campo dell’economia di mercato, dell’unificazione mondiale dei mercati monetari e dell’irruzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione crea delle condizioni obiettivamente molto favorevoli allo sviluppo dell’economia mondiale. Le imprese si organizzano in reti planetarie. Queste ne guadagnano in libertà ed efficienza. Con la liberalizzazione dei controlli sui cambi, l’esistenza di un’immensa riserva potenziale di finanziamenti privati può favorire lo sviluppo, in ogni caso quello delle economie del Sud pronte a raggiungere la grande corrente dell’integrazione dell’economia mondiale, e a creare coraggiosamente le condizioni necessarie per questo; il che è lontano dall’essere un affare di poco conto.

In un tale contesto, marcato per di più dall’affossamento del comunismo, i risultati disastrosi in diverse parti del mondo di molte esperienze di economie dirette e l’alleanza che si genera tra democrazia ed economia di mercato, si può prendere a sognare e, in ogni caso, comprendere l’entusiasmo del grande scrittore peruviano Mario Vargas Llosa: «Noi ci dobbiamo convincere che mai prima d’oggi, in tutta la storia dell’umanità, abbiamo avuto altrettante potenzialità intellettuali, scientifiche ed economiche per combattere i nostri mali  atavici: la fame, la guerra, l’esclusione e l’oppressione».

Le cifre degli ultimi cinquanta anni sono là, in effetti, per attestare i progressi della condizione materiale dell’uomo, insufficiente, certo, ma promettenti.

Tutto sommato, si potrebbe vedere, nelle forze della mondializzazione, delle dinamiche formidabili al servizio di ciò che l’uomo ha di migliore: la sua creatività, il suo senso della solidarietà, il suo senso della responsabilità del mondo nella sua globalità. Noi saremmo così in un mondo che, pur trovandosi nel disordine e non senza molti guasti e sofferenze che debbono essere deplorati, si fa uno: per il meglio, per la rapidità senza tregua accresciuta dalla diffusione delle conoscenze, la moltiplicazione delle opportunità di viaggio e di contatti, la reattività stessa delle società alle disgrazie che avvengono nel più lontano angolo del mondo. Sempre più, i nostri contemporanei divengono coscienti di questo ripiegamento del mondo su se stesso. Tutti i maggiori avvenimenti, anche i più spaventosi, accrescono questa percezione universale della globalità. Niente arresterà dunque, sembra, questa marcia verso un’unificazione crescente del mondo. Certo, ma è anche vero che queste chances non saranno automaticamente massimizzate né rese accessibili a tutti i paesi e a tutti gli uomini. Ottimizzazione delle chances ed equità nella loro distribuzione richiedono quindi la vigilanza e l’azione dei poteri pubblici. Ne andrà di conseguenza a fortiori l’indispensabile sforzo per contenere i rischi che la mondializzazione suscita o che l’accompagnano minacciando di ridurre le chances a fugaci miraggi.

 

Rischi

 

Questi rischi sono numerosi e sottolineati dall’invidia, spesso a giusto titolo. Essi hanno nome: instabilità finanziaria, incapacità dello Stato nazione a far fronte a nuovi problemi che d’improvviso si manifestano a livello mondiale, livellamento culturale, minacce ecologiche, marginalizzazione dei più poveri e ineguaglianze stridenti. Questi ultimi rischi “sfida sistemica ultima” meritano un esame più dettagliato.

Il primo di questi rischi è l’instabilità finanziaria. In un recente passato, molte costose crisi hanno scosso l’economia mondiale: la caduta dei prezzi degli …, le forti turbolenze dei mercati dei cambi, la crisi con ricaduta sui mercati emergenti a causa degli eventi avvenuti in Messico, il fallimento di molte grandi imprese finanziarie, avvenimenti che sottolineano le carenze del nostro sistema. Noi sappiamo tuttavia che una crisi finanziaria, nata non importa dove nel mondo, può espandersi come una nuvola di polvere ed essere spesso portatrice attraverso il mondo d’una miseria crescente dei più deboli. La crisi asiatica degli anni ’90 ce l’ha ben mostrato. Siamo, d’ora in avanti, in una situazione d’interdipendenza molto più grande di quanto possiamo immaginare. Anche se un solo paese – anche di proporzioni modeste come la Thailandia – sprofonda, tutta l’economia mondiale è in pericolo.

E che dire delle violenze che risultano ancora dei disordini nel sistema finanziario internazionale? Le crisi dell’ultimo decennio: Messico, Thailandia, Turchia … hanno lasciato dietro di sé milioni di vittime e di disoccupati. Ci si è attivati, non senza successo, a contenerli, ma la risorgenza di una crisi in Argentina da un lato, degli scandali come quello Enron dall’altro, il vedere l’utilizzazione dei centri off-shore, da  parte di Al Qaida, per finanziare le sue attività criminali, mostrano come resti molto da fare per stabilizzare e civilizzare realmente il mondo politicizzato della finanza.

Il secondo rischio costituisce, da solo, una metafora del XXI secolo: è l’insorgere continuo di problemi di dimensione mondiale (clima, criminalità – particolarmente finanziaria – droghe, pirateria informatica, migrazioni, grandi endemie e altri ancora che possono sorgere) ignorando le frontiere dello Stato-nazione, e davanti a questi ci  troviamo – per così dire – pietosamente disarmati. Tutto avviene come se uno scarto crescente si stabilisca tra la mondializzazione dei sistemi produttivi e dei mille elementi che afferiscono la vita dei nostri contemporanei, e la lentezza dei progressi verso l’adattamento e l’avvicinamento degli strumenti di risposta politica a queste nuove domanda. Incertezza e instabilità si moltiplicano in conseguenza e suggeriscono a nostri contemporanei la domanda posta frequentemente: «C’è un pilota in questo aeroplano che attraversa turbolenze sempre maggiori?». L’interdipendenza crescente delle economie e delle società è ormai un fatto riconosciuto da tutti. Le esitazioni a mettere in campo gli strumenti della sua gestione, non sono comprese. Ne risulta un malessere tanto più duramente sentito dall’opinione pubblica che non ignora l’esistenza di forze perverse o di potenti interessi di settore che approfittano di queste esitazioni per stabilizzarsi, organizzarsi e usare la mondializzazione per rafforzare il loro potere. Al di là delle lobbies, sottolineo l’esistenza di organizzazioni mafiose o criminali che strutturano sempre meglio le proprie reti mondiali.

Un terzo rischio interessa la società umana in quello che ha di essenziale: l’identità culturale. Non mi pronuncerò su questo rischio, perché queste questioni non sono di mia competenza. Ma mettiamolo in memoria, consapevoli che si tratta del rovescio della medaglia delle opportunità che la mondializzazione apporta anche all’arricchimento culturale del mondo.

L’eterogeneità del processo di mondializzazione e l’ineguaglianza nella diffusione dei suoi benefici creano un quarto rischio, quello della marginalizzazione di paesi, di regioni intere. Lo cito per ultimo per poter entrare più nel dettaglio. Il caso dell’Africa è qui. Questo rischio di emarginazione dei più poveri è ancor più accresciuto dal fatto che i paesi più avanzati tendono a concentrare gli aiuti allo sviluppo su quei paesi che più manifestano la propria volontà di tirarsi fuori autonomamente dalla loro situazione. Il sostegno agli altri paesi si limita in generale alle operazioni umanitarie.

Se certi paesi in via di sviluppo hanno compreso come fare affidamento sulle forze della mondializzazione per accelerare il proprio progresso economico e tirare le redini del gioco, questo non è vero per tutti. I paesi incapaci di partecipare all’espansione del commercio mondiale o di attirare un volume significativo d’investimenti privati, rischiano d’essere i dimenticati dell’economia mondiale. E questi sono precisamente i paesi che hanno il maggior bisogno degli scambi, degli investimenti e della crescita che la mondializzazione potrebbe apportar loro, e quindi che sono i più esposti a questo rischio. Tutto avviene come se i paesi più poveri non figurassero sul mappamondo degli investimenti mondiali. Il mercato non ha cura dei più poveri. Si può dunque temere che il fossato si allarghi ancora tra i due estremi. Qualcuno ben preme, le due rive di questo abisso dividono allora, e di fatto, dividono già uno stesso pericolo di cui solo l’amplificazione ci scappa.

Noi siamo in presenza di un caso dove l’ineguaglianza tra paesi e all’interno dei paesi moltiplica i propri effetti. Lo scarto tra gli estremi è esacerbato dalla nuova vicinanza creata dalla mondializzazione dell’informazione. Ugualmente se la mondializzazione, propriamente detta, non è responsabile di una crescita delle ineguaglianze tra paesi, poiché queste sono restate ad un livello comparabile a quello del 1975, la crescita delle ineguaglianze a livello nazionale – anche nei paesi industrializzati – accresce le tensioni.

Questa coppia povertà/ineguaglianza riveste oggi proporzioni tali e veicola rischi tali per il mondo, che occorre soffermarci per esaminarla più in dettaglio.

 

Povertà e avvenire del mondo

 

«La povertà, diceva Gandhi, è la peggiore delle violenze fatte ai popoli». Non sto a ridirvi tutto ciò che già sapete: le cifre sono là, ripetute a sazietà: 1,2 miliardi d’individui vivono con meno d’un dollaro al giorno; altrettanti almeno senza il necessario accesso all’acqua potabile; 900 milioni di analfabeti; 800 milioni sofferenti per fame o malnutrizione; 4 miliardi di donne e uomini senza un’infrastruttura sanitaria elementare. A questo si aggiunge il sentimento di ingiustizia e di frustrazione legati allo spettacolo non soltanto dell’opulenza dei più ricchi, ma semplicemente del modello di consumo delle classi medie dei nostri paesi. Jim Wolfensohn, il Presidente della Banca Mondiale ha espresso recentemente (Praga, settembre 2000) questo in termini vigorosi: «Noi viviamo in un mondo caratterizzato dalle ineguaglianza. Quando il 20% dei più ricchi della popolazione mondiale si dividono più dell’80% delle risorse mondiali, qualcosa non va. Quando il 10% di una popolazione si divide la metà della risorse nazionali, come nel caso di troppi paesi oggi, qualcosa non va. Quando le risorse medie per i paesi più ricchi è 37 volte superiore alle risorse medie dei 20 paesi più poveri, cifra che è  più che raddoppiata nel corso degli ultimi quaranta anni, qualcosa non va».

Occorre andare più lontano e riconoscere che questa violenza dell’economia sui paesi più poveri, è violenza fatta anche al mondo nel suo insieme. Noi siamo troppo abituati per ben discernerlo, allo scandalo del sotto impiego di miliardi di essere umani. Inverosimile è l’impoverimento, per il mondo, della violenza fatta alle donne attraverso la povertà!  Si è pensato a quello che sarebbe il volto del mondo se tutte queste giovani donne alle quali viene rifiuta l’uguaglianza di accesso all’educazione rispetto ai ragazzi, se la vedessero riconoscere?  Questa sarebbe senza dubbio la via principale verso un controllo più responsabile della fecondità e della popolazione mondiale e, da qui, verso un miglioramento significativo di risorse per ogni persona. Si è pensato ancora, alla capacità imprenditiva, all’arricchimento della vitalità delle società civili così liberate? L’altra metà del mondo entrerebbe in economia. L’umanità tutta intera se ne troverebbe beneficiaria.

Quante voci ridotte al silenzio, anche per il peso della miseria, che se si esprimessero arricchirebbero il concerto delle Nazioni. Permettetemi di aggiungere due osservazioni.

 

Un’accoppiata perversa: violenza della povertà e violenza armata

 

E’ necessario esplorare maggiormente il legame che unisce violenza economica e  violenza armata e quindi il legame fra povertà e terrorismo. Il lettore ne rimarrà forse sorpreso: questo legame non è evidente per tutti. Questo è stato il tema dominante del ritiro di una cinquantina di Capi di Stato  a Monterrey e quelli di loro che, trovandosi a casa propria o a livello mondiale, in prima linea nella lotta contro il terrorismo, cercavano di minimizzare il legame tra quest’ultimo e la povertà, invocando con insistenza la nazionalità saudita degli autori dello spaventoso attentato di New York. Tuttavia non riuscivano a convincere che loro stessi. Come negare, infatti, che in un mondo in cui la pubblicità incita al consumo, l’estrema povertà non generi delle insopportabili frustrazioni, lasciando senza speranze una gioventù che diventa facile preda per tutti coloro che sono fautori del disordine, della violenza e, qui e lì, del terrorismo?

Ancora più importante da osservare è la connessione circolare che si stabilisce tra la violenza armata e la povertà. Il mio amico, Professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio a Roma, di cui conosciamo il contributo alla risoluzione pacifica dei conflitti nel mondo, lo ricorda spesso: “La guerra è la madre di tutte le povertà”. Come seminare, coltivare, produrre, scambiare quando i paesi sono in balia delle guerre e di tutte le sue conseguenze? La guerra produce miseria ma, abbiamo appena visto anche questo, la miseria è terreno fertile di tutte le violenze che si trasformano, facilmente per dei leader senza scrupoli, in interminabili conflitti armati, a volte unico modo per loro di affermare il proprio potere o di sopravvivere sulla scena mondiale. La guerra genera povertà ma quest’ultima può condurre alla guerra. L’Africa è da molto tempo il teatro in cui questa spirale non cessa di accanirsi sui più poveri del mondo.

 

Alcune volte, il mondo è sembrato persino rassegnarsi a questo, come se si potesse in maniera cinica lasciare a questi mali la loro parte. Ma dall’11 settembre in poi lo sappiamo meglio. Non si possono confinare né guerra né miseria; sono dei mali sistemici come le malattie contagiose e il degrado ambientale. Nell’era della globalizzazione, non c’è più spazio per il vecchio sogno di una prosperità nascosta dietro i muri di una fortezza o per quelli, molto recenti, di quartieri per popolazioni agiate in perimetri protetti dai  dispositivi di sicurezza più sofisticati.

Il tic-tac demografico

 

Sì, senza alcun dubbio, Gandhi aveva ragione: “La povertà è la peggiore delle violenze inflitte ai popoli”. Ma la rappresentazione istantanea dei danni che provoca non può essere sufficiente. Se non si trovano, infatti, modi migliori per creare maggiori opportunità per i poveri, essa rischia di aggravarsi; diventerà sempre più minacciosa mano a mano che l’orologio demografico continuerà a girare. Ci annuncia già 2 miliardi di persone in più nel corso dei prossimi 25 anni, di cui più del 90% nati nei paesi in via di sviluppo. “La povertà si rivela qui come la minaccia sistemica principale”. Queste parole sono di Angel Gurria, ex ministro delle Finanze del Messico. Gliele ho spesso prese in prestito. Tutti i capi spirituali ce lo ricordano e il papa Jean Paul II ha trovato una formula lungimirante nell’enciclica Sollicitudo rei Socialis: “O lo sviluppo diventa comune in tutte le parti del mondo, oppure subisce un processo di regressione anche nelle regioni caratterizzate da un progresso continuo”. Non sarebbe possibile esprimere meglio la dimensione sistemica del problema. Anche se il bilancio di cinquant’anni di sforzi di assistenza allo sviluppo presenta degli aspetti positivi, i loro risultati rimangono insufficienti e, in alcune regioni quali l’Africa sub-sahariana, non riescono ad impedire che la povertà guadagni terreno.

Ne conseguono: l’accumulo di frustrazioni, i tentativi disperati di molti candidati clandestini all’immigrazione per raggiungere un mondo “di abbondanza”, e la loro tragica fine; ne conseguono: il tono populista di numerose campagne politiche sul terzo mondo, il rischio di una polarizzazione crescente dell’economia globalizzata tra ricchi e poveri, il rischio permanente della rimessa in discussione di questo “disordine mondiale stabilito”; sì, un terreno fertile per il terrorismo. E si è tentati di aggiungere: è solo l’inizio!

 

II - Fratellanza, segreto della Speranza 

 

Minacce pesanti, fragili chances di cui speriamo che al prezzo di un enorme sforzo da parte della comunità, possano avere la meglio e rendere questo mondo più abitabile… Altri invece disperano, teorizzano la loro disperazione sui vecchi argomenti dell’irresistibile potere di Wall Street oppure dei monopoli, delle forze schiaccianti dell’imperialismo americano, etc…; altri infine coltivano il sogno o le preghiere di una mobilitazione popolare universale che invertirebbe i rapporti di forza.

Ecco il mondo nel quale bisogna, a partire dalla fragile speranza degli uni, e dalla disperazione degli altri, far nascere molto più che l’aspettativa, la Speranza, perché l’umanità possa trovare la forza di rovesciare le sue derive perverse. Ma dove andare a prendere? Da dove viene? In quale modo si manifesterà? Qual è il segreto della Speranza?

Ebbene, ve lo dirò senza perifrasi. Scopro questo segreto in un pensatore che era lontano dall’essere un padre della Chiesa o anche un credente. La risposta alla disperazione, “la risposta al male assoluto”, ha detto Andrè Malraux, è la fratellanza.

La fonte di questa frase è stata uno dei libri che mi ha maggiormente impressionato in questi ultimi tempi: “Il Segreto della Speranza” di Geneviève de Grulle, libro-testamento pubblicato qualche mese prima della sua morte.

“Rivivo, dice, tutto ciò che i poveri mi hanno insegnato…Devo loro di aver compreso che il segreto della Speranza, è il segreto della fratellanza. Questa fratellanza…che ognuno di noi deve tessere instancabilmente”.

La fratellanza: voi lavoratori cristiani potete conoscerla meglio di molti altri. Perché?

Perché la Speranza si apprende nel compiere azioni con i poveri, Geneviève de Gaulle cita all’inizio del “Segreto della Speranza” queste parole di G. Bernanos nella sua “Vita di Gesù”: “Se potessimo disporre di alcuni mezzi per scovare la speranza come lo stregone scova l’acqua sotterranea, è avvicinandoci ai poveri che vedremmo torcersi fra le nostre dita la bacchetta del rabdomante. I poveri detengono il segreto della Speranza”.

 

Altrove, lo stesso Bernanos si interrogherà sul perché della beatitudine: “beati i poveri di spirito: perché di essi è il regno dei Cieli”.

“…Perché in un mondo rifocillato, non riescono a perdere la Speranza”.

Da sempre, il mondo del lavoro è stato quello della prossimità ai poveri e alla fratellanza. Questo legame: il povero, mio prossimo, mio fratello, è la vostra ragion d’essere e avete pagato un prezzo elevato per questo nel corso della storia.

Quindi possiamo affermarlo: la Speranza sorgerà quale sorella gemella della fratellanza e continuerà a nascere in maniera in qualche modo privilegiata in mezzo ai poveri. Dobbiamo dunque fermarci a questo binomio fondamentale: fratellanza e speranza. Domandiamoci cosa ci suggerisce questo binomio, in sé e a livello mondiale. Vorrei segnalarne solamente due aspetti:

 

1. E’ nella sua natura vivere e fiorire là dove viene conservato e sviluppato il contatto con i poveri; i poveri in una maniera misteriosa ne detengono le chiavi, cosa che non riduce assolutamente il valore dell’agire di coloro che non sono poveri; ma quelli che non sono poveri, fra cui io, devono umilmente accettare questa realtà e non perderla mai di vista nell’ambito delle proprie azioni e delle proprie riflessioni. Questa prossimità, l’accoglienza dei poveri è la chiave dell’autenticità, ma non fraintendiamo, più importante ancora che accogliere i poveri è lasciarci accogliere da loro. L’accoglienza del povero, in un modo misterioso, è l’accoglienza di Dio! Se si ha la fortuna o la grazia di questa accoglienza, si comprende un po’ meglio come si costruisce il Regno. Si sa anche che nessuna situazione è disperata. Si sa anche che in ogni momento, un uomo o una donna potranno apparire a mani nude e restituire una possibilità alla fratellanza contro il disordine stabilito, lo sfruttamento, la violenza o la tirannia. Saranno cristiani oppure no, si chiameranno Gandhi, Mandela, M.L. King, Walesa o Havel e porteranno la società a pretendere con la non violenza il cambiamento, l’avanzata verso un mondo più umano e fraterno, questo non a partire dai prestigi di una ideologia populista e demagogica, ma da una verità appresa presso i poveri e gli oppressi. Capiamo, ancora meglio, che una società, un mondo, per trovare il proprio equilibrio, la “tranquillità dell’ordine”, un equilibrio armonioso nella crescita, debba attuare tutti gli sforzi possibili affinché i poveri siano associati alla loro gestione e non emarginati. Capiamo meglio così che la speranza e la fratellanza sono “le virtù del piccolo numero”, del “piccolo resto di Israele” eppure sappiamo che salveranno il mondo.

 

2. Un altro aspetto di questo binomio fratellanza e Speranza è rappresentato dall’invito ad agire sempre a partire dalla realtà, dalle cose concrete immediate, senza aspettare condizioni migliori, ma modestamente hic e nunc, eppure con un’ambizione e una visione universale. Mi piace fare riferimento a uno dei messaggi di ADT Quart Monde: “Agire con i poveri qui, ovunque, con loro, molto modestamente tessere la fratellanza qui, è agire su scala mondiale” (G. de G.). Direi che è poco importante il luogo in cui si agisce, lì dove siamo stati messi: ogni azione inspirata a questa fratellanza e a questa Speranza ha valore universale.

Gli Anglo-sassoni utilizzano questa bella formula: “Act locally, think globally”. L’act locally non è il restringersi di un’azione gloriosamente universale. E’ l’inverso: è un’azione efficace nella e per la fratellanza universale. Bisognerebbe avere l’audacia formidabile di Padre Wresinski, fondatore di ADT-Quart Monde, il quale, all’inizio del suo modesto progetto di Noisy-le-Grand, diceva: “Non rimango qui per creare un aiuto ma un progetto di civiltà? Per noi cristiani, è una componente essenziale di quello che vogliamo costruire, una “civiltà dell’Amore.”

Ma attenzione! E lo sospettate, non si tratta assolutamente di opere buone o di un impegno amatoriale; questo dev’essere il grande progetto di tutti gli uomini, sì, un grande progetto umano, l’unico al quale –ascoltate bene- tutta l’umanità si sia impegnata. Nessuno se ne ricorda, e bisogna ricordarlo sempre e comunque, l’unico dovere che la comunità dei popoli si sia riconosciuta quando ha adottato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è –cito il suo articolo primo- “quello di agire in uno spirito di fratellanza”.

 

III – Agire con spirito di fratellanza

 

Questo binomio fratellanza Speranza deve dunque concretizzarsi in azioni collettive “in uno spirito di fratellanza”. Quale genere di azioni collettive oggi?

Non andiamo a cercare cose impossibili e non aspettatevi da me che vi fornisca, tirandolo fuori dal cilindro, un grande programma di umanizzazione della globalizzazione. In compenso vorrei dedicare ancora qualche minuto a sottoporre alle vostre riflessioni due orientamenti ai quali, in ogni caso non possiamo sfuggire se vogliamo essere almeno un po’ seri rispetto al nostro dovere di fratellanza.Il primo è il dovere imperioso di mantenere la parola. Il mondo si è abituato ad organizzare grandi conferenze, e a concluderle con grandi impegni…e velocemente a dimenticarli. Qui ci vuole un cambiamento radicale. Dobbiamo, in quanto cittadini pretendere che la nostra parola sia mantenuta, in particolare, quella data in occasione delle quattro grandi conferenze che hanno segnato l’inizio del millennio. Il secondo è quello di sforzarci di mettere in piedi delle strutture che possano contribuire al bene comune universale. Lo sappiamo, le strutture del male esistono: opponiamo a queste ultime le strutture del bene.

 

Mantenere parola

Senza entrare nel dettaglio delle conclusioni e degli impegni di queste ultime conferenze mondiali, consentitemi di ricordarvi l’essenziale: la conferenza delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2000 nel corso della quale, celebrando il nuovo millennio, 170 capi di Stato hanno rinnovato gli impegni presi nel corso degli anni 90 e che avevamo tutti, più o meno, perso di vista. Ve li ricordo nel caso non fossero più presenti in tutte le memorie:

- ridurre della metà il numero di persone che vivono in una estrema povertà, quelle che soffrono la fame e quelle che non hanno accesso all’acqua potabile;

- realizzare un’educazione primaria universale e garantire la parità dei sessi nell’educazione;

- ridurre di tre quarti la mortalità delle donne e di due terzi la mortalità dei bambini di meno di cinque anni;

- stoppare e mettere fine all’epidemia del HIV;

- migliorare le condizioni di vita di 100 milioni di persone che vivono nelle bidonville.

A questi impegni dobbiamo, ormai, tenere fede. La comunità internazionale ha adottato il buon proposito di verificare tutti gli anni il punto in cui siamo. Se in alcune parti del mondo i risultati sono buoni, in Africa sono più preoccupanti. Il primo orientamento che potremmo seguire in questo spirito di fratellanza è quindi quello di utilizzare la nostra influenza presso i pubblici poteri affinché siano scrupolosamente mantenuti gli impegni da parte di ognuno dei nostri paesi. Questo lascerà ancora molti problemi irrisolti, ma almeno, metterà in moto un processo e la speranza di un progresso.

Altri impegni sono stati presi in occasione della conferenza di Monterrey a proposito di “Finanza e sviluppo” tenutasi a Monterrey nel marzo 2002. Si tratta in particolare di uno sforzo importante per recuperare il nostro ritardo per quanto riguarda i nostri impegni di dedicare lo 0,7% dei nostri PIB all’aiuto pubblico allo sviluppo.

Altri impegni sono stati presi in occasione del summit di Genova il quale è sicuramente rimasto in tutte le vostre memorie nell’ambito del nuovo partenariato per l’Africa (NEPAD). Si tratta ormai di realizzare, in uno spirito esemplare di partenariato, il programma d’azione iniziale adottato a Kananaskis. Infine, proprio questa settimana, il summit di Johannesburg ha aggiunto alcune promesse che abbiamo tutti giudicato troppo imprecise per garantire uno sviluppo duraturo. E’ evidente che bisogna compensare, con i nostri sforzi di realizzazione, tutto ciò che la conferenza ha lasciato nell’imprecisione e adoperarci a sviluppare presso le popolazioni dei nostri paesi questa preoccupazione e questa esigenza di uno sviluppo rispettoso degli equilibri sociali e ambientali del pianeta.

Insisto da parte mia sul dovere di essere esemplari nel rispettare la parola data. Per me rappresenta il grado zero del partenariato e ovviamente della fratellanza. Ogni società umana si fonda sulla parola data. Prendere questo impegno alla leggera conduce ad annullare ogni speranza di avanzare verso una società più fraterna.

Al di là, rimane molto da fare per dotare un pianeta globalizzato di strutture che consentono di definire e perseguire il bene comune universale.

 

Creare delle strutture per servire il bene comune universale

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A questo punto, vorrei suggerire quattro direttive di lavoro. La prima consiste nel dare al partenariato la sua dimensione. Siamo troppo abituati a lasciare agli Stati la responsabilità delle iniziative per quanto riguarda la vita internazionale. Il partenariato che dobbiamo realizzare oggi deve essere multidimensionale e impegnare le imprese, le istituzioni finanziarie e la società civile. Insisto sul ruolo di quest’ultima: è solo se sarà completamente mobilitata per la realizzazione di questo obiettivo di fratellanza che avrà qualche possibilità di realizzarsi progressivamente.

Un altro capitolo concerne la riforma delle organizzazioni finanziarie internazionali che siamo abituati a considerare quali capri espiatori di tutto ciò che non va o gli agenti di un imperialismo finanziario. Avendo gestito una di queste, vorrei dire quanto questo apprezzamento sia ingiusto e quanto credo che, a condizione di dare loro gli orientamenti necessari, possano e debbano, anch’esse, contribuire a mettere la finanza al servizio del bene comune universale.

Bisogna anche sostituire al sistema delle Nazioni Unite ereditato dalla seconda guerra mondiale un sistema profondamente riformato e che risponda ai problemi sollevati dalla globalizzazione. Tale riforma, come quelle delle organizzazioni finanziarie, acquisirà un senso solo se saranno trovati i mezzi per dare, realmente, ai paesi poveri, il loro posto nell’assunzione delle decisioni. E’ la ragione per cui attribuisco grande importanza all’allargamento del G7 ai rappresentanti dei paesi del Terzo mondo.

Perché un tale cambiamento sia possibile a livello mondiale, è ovviamente anche necessario che l’Europa, la quale ha avuto la possibilità storica di sperimentare il cambiamento delle strutture di integrazione amichevole lì dove esisteva solo diffidenza e odio secolare,  eserciti pienamente e non timidamente nel mondo il ruolo di partner degli Stati Uniti. Questo può avere un’importanza storica maggiore e dare un nuovo corso più fraterno alla diplomazia.

Potrebbero essere aperti ben altri cantieri. Vorrei a questo punto indicarne uno solo quello che  consisterà nell’intraprendere ovunque nel mondo, e in particolare da noi, l’insegnamento del dovere di fratellanza ovunque venga impartito un insegnamento. Parallelamente, interrogarci sul nostro atteggiamento rispetto all’immigrazione. So quanto questo tema sia difficile, so quanto vi preoccupi e so che siete più competenti di me nel rispondere ai problemi che pone. Lasciatemi semplicemente suggerire che ogni volta che viene richiamato, sia posto nella luce di questo “spirito di fratellanza” che è il nostro pieno dovere di esseri umani.

Tutto questo, lo avete capito bene, è solo il primo passo, ne serviranno molti altri affinché lo “spirito di fratellanza” impregni il nostro mondo. Ve li ho forniti come esempi, ma bisogna andare oltre e diventare tutti, qui dove siamo, degli inventori di fratellanza. E’ il cammino più sicuro per trasformare le nostre aspettative nella Speranza.

Certo, lo abbiamo appreso, non dobbiamo rischiare di confondere le nostre aspettative e le nostre battaglie umane con la Speranza, virtù cardinale, la quale ha gli occhi fissi sulla costruzione di un altro Regno. Ma non dimentichiamolo mai, questa speranza per gli uomini e per le donne del nostro tempo si costruisce nelle nostre battaglie qui e adesso. Ci conduce, in tutte le nostre azioni e tutte le nostre battaglie, mano nella mano, insieme a coloro che non condividono la nostra fede; quelle azioni e quelle battaglie dove, insieme a loro, troveremo l’unica vera risposta al problema del senso. E, da cristiani, la nostra risposta ad un altro richiamo, quello di cui parlava Teilhard de Chardin quando diceva. “E’ Dio stesso che ci chiama attraverso il processo di unificazione dell’Universo”.

 

LUIGI BOBBA (Presidente nazionale delle ACLI)

 

Controcorrente, per arginare le logiche del mondo

 

Vorrei prima di tutto esprimere una severa condanna per l’attentato alla sede della CISL di Pisa. Non sono parole scontate o retoriche: quando la violenza sostituisce il confronto sociale, quando si attaccano persone e sedi di una grande organizzazione sindacale come la CISL, la condanna della violenza e la vigilanza perché ciò non si ripeta sono un dovere anche per noi, per le Acli.

Una solidarietà forte e concreta a Savino Pezzotta, che sarà qui con noi domenica, e la certezza che la vicinanza e la stima da parte mia personale e delle Acli non verranno meno.

Questo quarto Convegno culturale di Vallombrosa si apre dopo che si è concluso il Vertice di Johannesburg sul futuro dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Come sappiamo gli argomenti trattati hanno riguardato questioni essenziali per la sopravvivenza dell’umanità: dall’acqua alla biodiversità, dalla produttività agricola, alle fonti di energia e all’inquinamento.

L’estate che volge ormai al termine ci ha fatto toccare con mano le conseguenze drammatiche di sconvolgimenti climatici e del degrado ambientale, dai fiumi del Centro-Europa alle regioni della Cina. È sembrato quasi che l’accanimento di questi eventi nel mese di agosto, volesse spronare il summit dell’ONU, a Johannesburg, a raggiungere risultati concreti senza ulteriori e imperdonabili ritardi.

Non solo possiamo affermare che si è fatto veramente poco nei dieci anni che ci separano da Rio De Janeiro 1992. Ma la situazione generale è peggiorata. A Rio si era assunto l’impegno di non aumentare le emissioni di inquinanti e di stanziare 125 miliardi di dollari ogni anno per realizzare gli obiettivi dell’Agenda 21 nei paesi in via di sviluppo. Si è verificato invece un aumento dei gas serra dei paesi industrializzati del 10% e si è raggiunto uno stanziamento di non più di 53 miliardi di dollari annui per i paesi in via di sviluppo. Alcuni dati ci dicono tutta l’urgenza delle problematiche discusse a Johannesburg: 1 miliardo di persone non ha acqua potabile da bere (nel 2025 gli assetati nel mondo saranno 3,5 miliardi); ogni anno 3 milioni di persone muoiono a causa di malattie legate all’inquinamento; il 15% della superficie terrestre è degradata; un quarto della popolazione mondiale soffre a causa della siccità; nel mondo ci sono 800 milioni di affamati; vengono distrutti milioni di ettari di foreste e scompaiono una gran quantità di specie animali e vegetali.

Nell’ultimo rapporto dell’ONU sullo stato di salute del pianeta si punta il dito contro gli attuali modelli di sviluppo dell’economia, che sono diventati assolutamente incompatibili con la possibilità di rigenerazione delle risorse naturali del pianeta e che rischiano di compromettere a lungo termine la sicurezza della terra e dei suoi abitanti. Dice Kofi Annan, Segretario generale dell’ONU: «lo stile di vita consumistico continua ad essere una sorta di tassa occulta che grava sull’ecosistema globale». E con questo ci rendiamo conto che tutti noi, cittadini dei paesi industrializzati del Nord del mondo, siamo direttamente coinvolti nelle ingiustizie sociali che lacerano oggi l’umanità.

Anche Giovanni Paolo II, aveva chiesto che a Johannesburg i capi di Stato e di governo trovassero strade nuove per conciliare la dimensione economica e sociale con la “vocazione ecologica”. Già nella Centesimus Annus (1991) si denunciava l’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale, osservando che «ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di una autentica ecologia umana» (n. 38).

Di una profonda conversione ecologica avrebbe bisogno lo sviluppo dei popoli per diventare più giusto e sostenibile, ma siamo ancora ben lontani da questa prospettiva. Anche in questa occasione abbiamo assistito al solito rito stanco di promesse fallaci che in poche ore saranno dimenticate e che nessuno sarà mai incaricato di verificare. Che senso ha, ad esempio, promettere l’1% del PIL per gli aiuti ai Paesi del Sud del mondo se poi concretamente nell’ultima finanziaria è scritto che gli aiuti saranno appena di un esiguo 0,12%? Oppure avanzare proposte apparentemente concrete come la “detax” o come l’e-governement?  

Il giudizio dell’economista di Harvard, Jeffrey Sachs, inviato del Segretario dell'Onu ben rappresenta lo stato delle cose: «I paesi ricchi non sono venuti a Johannesburg con reali impegni ma con il riciclaggio di vecchie promesse. Si gioca con un'aritmetica che ha a che fare con la vita e con la morte. Basterebbe avere un centesimo per ogni dieci dollari di spesa mondiale per creare un fondo di 25 miliardi di dollari: con questi fondi si potrebbero salvare 8 milioni di vite ogni anno».

A Johannesburg abbiamo avuto la riprova di quanto sia urgente un ruolo forte e unitario dell’Europa per imprimere un indirizzo più determinato alle prospettive future del pianeta. Deve farci riflettere un dato che sta diventando sempre più frequente e preoccupante: il continuo stato di frizione tra le posizioni degli Stati Uniti e quelle dell’Unione Europea. È’ significativo che tale divaricazione stia riguardando lo stesso orientamento futuro dello sviluppo della terra e non solo la ratifica del protocollo di Kyoto o l’attacco all’Iraq. Particolarmente sordi e refrattari alla sensibilità ecologica sembrano essere proprio gli Stati Uniti che si ostinano a non ratificare tale protocollo. Positiva e apprezzabile è apparsa invece la posizione dell’Unione Europea e questo, una volta tanto, possiamo affermarlo con una punta d’orgoglio. Non altrettanto possiamo dire del governo italiano che ha assunto una posizione che oscilla tra il sostegno alle scelte europee e il non dispiacere alle decisioni degli Stati Uniti. Molteplici segnali ci dicono che sta crescendo nel mondo il ruolo politico dell’Unione Europea a tal punto che possiamo parlare di una nuova missione. Quattro sarebbero, per il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, le sfide che l’Europa dovrà affrontare: «La responsabilità su scala mondiale al servizio alla pace e allo sviluppo; la difesa di un modello equilibrato capace di conciliare benessere economico e solidarietà; la garanzia delle libertà e del pieno rispetto dei principi di sicurezza; e il fare dell’Europa un polo dell’intelligenza».  

Sul futuro ruolo che l’Europa dovrà giocare sullo scenario internazionale, riteniamo importante richiamare le parole con cui Giovanni Paolo II chiede di inserire nella Convenzione europea il riferimento alle radici cristiane del continente: «La mia preoccupazione più grande per l’Europa è che essa conservi e faccia fruttificare la sua eredità cristiana. Non si può, infatti, negare che il continente fondi le proprie radici, oltre che nel patrimonio greco-romano, in quello giudaico-cristiano, che ha costituito per secoli la sua anima più profonda. Gran parte di quello che l’Europa ha prodotto in campo giuridico, artistico, letterario e filosofico ha un’impronta cristiana e difficilmente può essere compreso e valutato se non ci si pone in una prospettiva cristiana (...) È infatti in virtù del messaggio cristiano che si sono affermati nelle coscienze i grandi valori della dignità e della inviolabilità della persona, della libertà di coscienza, della dignità del lavoro, del diritto di ciascuno ad una vita dignitosa e sicura e quindi alla partecipazione ai beni della terra, destinati da Dio al godimento di tutti gli uomini. (...) Il mio auspicio - conclude Giovanni Paolo II - è che l’Unione Europea sappia attingere nuova linfa al patrimonio cristiano che le è proprio, offrendo risposte adeguate ai nuovi quesiti che si propongono soprattutto in campo etico». (Dal discorso del Papa ai partecipanti al II Forum internazionale Fondazione De Gasperi, ricevuti in udienza il 23/02/2002).

Come già altri hanno ricordato, fra pochi giorni sarà l’11 settembre, una data che segna uno spartiacque della storia contemporanea e che ha lasciato una ferita nella coscienza di ciascuno di noi. Scegliamo ancora le parole con cui Giovanni Paolo II si è riferito a questo avvenimento nel suo viaggio a Toronto per la Giornata Mondiale della Gioventù: «Il nuovo millennio si è inaugurato con due scenari contrastanti: quello della moltitudine di pellegrini venuti a Roma nel Grande Giubileo per varcare la Porta Santa che è Cristo, Salvatore e Redentore dell'uomo; e quello del terribile attentato terroristico di New York, icona di un mondo nel quale sembra prevalere la dialettica dell'inimicizia e dell'odio.

La domanda che si impone è drammatica: su quali fondamenta bisogna costruire la nuova epoca storica che emerge dalle grandi trasformazioni del secolo XX?». È la stessa che si è posto, da altre sponde, il filosofo francese Jean Claude Guillebaud nel libro “La refondation du monde”, nel quale conclude che il mondo di domani non lo avremo in eredità, ma sarà una nostra creazione.

Più recentemente Gilles Kepel (Corriere della Sera, 4 settembre 2002), uno dei più acuti studiosi del fondamentalismo islamico, ha osservato che dopo l’11 settembre non si è verificato ciò che molti si aspettavano. Il mondo musulmano non è esploso in un impeto fondamentalista e anti-occidentale, alimentato dallo spirito della Jihad. E gli Stati Uniti non sono rimasti intrappolati in Afghanistan come avvenne per l’Unione Sovietica negli anni ’80. Il regime dei talebani è stato spazzato via. Ma ora che Bush vorrebbe estendere la sua “guerra totale” contro l’Iraq di Saddam Hussein, si trova ad essere pressoché isolato in questa nuova incomprensibile avventura bellica. Siamo certi che attaccando Baghdad con un’altra guerra, dopo dodici anni da quella del Golfo, non si potrà sperare nella soluzione di alcunché, se non in un peggioramento complessivo che nessuno vuole e che fa apparire l’ostinazione americana fuori da ogni ragionevolezza. La via indicata da Giovanni Paolo II rimane per noi l’unica percorribile e chiede di mettere da parte la “rabbia e l’orgoglio”, o il risentimento della ferita narcisistica, ma di illuminare le decisioni con senso di lungimiranza e responsabilità. Come sta facendo l’Europa, senza aspettare particolari telefonate da oltreoceano.

Come cattolici riteniamo che la migliore risposta che possiamo dare all’11 settembre sia quella della conversione personale, innanzitutto, e insieme un impegno più convinto nelle strade del dialogo interreligioso e della solidarietà globalizzata per cambiare gli equilibri del mondo. Il prossimo 21 settembre a Firenze le associazioni cattoliche, riunite nel cartello “Sentinelle del mattino”, daranno vita ad un nuovo appuntamento. Non più per fare richieste al G8 - come avvenne a Genova poco più di un anno fa, ma per offrire proposte e assumere impegni. Non siamo vertici-dipendenti, anche se siamo abituati a tener vicino alle nostre agende quotidiane anche l’agenda globale del pianeta. A Firenze diremo un sì forte ai diritti globali, diremo che solo con l’educazione e il lavoro si potrà sconfiggere la povertà. A Firenze ci saranno molte delle reti di gruppi e di movimenti cattolici così da smentire coloro che avevano già messo da parte la presenza dei cattolici dalle iniziative sui temi della pace e della lotta alla povertà. 

Ma le difficoltà non sono poche, perché l’attuale processo di globalizzazione, che i nostri convegni di Vallombrosa ci hanno aiutato a conoscere di più, rischia di produrre nella società una “inondazione distruttiva”, se non sarà governata dalla politica. È sotto gli occhi di tutti la totale inadeguatezza delle istituzioni internazionali ad assicurare un minimo di governabilità all’attuale globalizzazione. Come ha acutamente osservato Giuliano Amato, i nuovi movimenti - che hanno al centro della loro azione i temi della globalizzazione -  oltre ad aver costretto “i grandi” a modificare, seppure parzialmente, l’agenda della politica, rappresentano un fenomeno storicamente inedito: l’emergere, seppur in forma embrionale, di una coscienza globale prima che abbiano preso forma istituzioni globali. È questo scarto che bisogna colmare per evitare che lo stesso processo di avanzamento della storia travolga gli attori sociali e chi aveva la responsabilità politica di orientarlo. L’umanità di oggi appare davanti ad un bivio: o retrocedere al tempo delle tribù, o dare alla luce l’uomo nuovo, il cittadino terrestre che sente di essere responsabile del genere umano e del pianeta.

Eccoci, infine, al tema del nostro convegno culturale. Che ne è del welfare, in Europa e in Italia, in questo tempo della globalizzazione? Che ne è del welfare in un momento storico in cui lo Stato appare in grande difficoltà? La direzione è quella della welfare community, un modello di politica sociale che, modificando profondamente i rapporti tra le istituzioni e i cittadini, garantisca maggiore soggettività e protagonismo alla società civile, aiutandola a realizzare un percorso di auto-organizzazione fondato sui valori condivisi della solidarietà, della coesione sociale  e del bene comune. 

Nato per contrastare la povertà e garantire a tutti i diritti di cittadinanza, il welfare state ha finito, almeno in parte, per fallire il suo compito. In virtù di una sorta di paradosso redistributivo, sarebbero infatti soprattutto i ceti medi a beneficiare del welfare e non le persone più bisognose. Incapace di farsi carico delle vecchie povertà, lo stato sociale si trova ulteriormente in difficoltà a rispondere alle nuove. La realizzazione di politiche inclusive presuppone il superamento di alcuni meccanismi attuali del sistema di welfare che vedono spesso un irrigidimento, un’autoreferenzialità dei servizi erogati e una sorta di indifferenza per le reali necessità degli utenti, che seleziona, tra i clienti da soddisfare, quelli che presentano meno problemi piuttosto che quelli che ne hanno di più. Un welfare inclusivo e attento ai bisogni di tutti richiede un profondo ripensamento delle politiche economiche e sociali. 

La costruzione di un welfare attento ai bisogni di tutti i cittadini e che promuova il loro protagonismo è possibile soltanto attraverso la valorizzazione del principio di sussidiarietà, ossia attraverso la capacità di operare nella società in senso orizzontale, a rete, con tutti i soggetti della economia e della società civile. La sussidiarietà comporta una ridefinizione del ruolo della pubblica amministrazione in relazione alla promozione delle politiche sociali e alla realizzazione di un sistema di responsabilità condivise che possa attivare capacità e competenze presenti nel territorio. L'applicazione del principio di sussidiarietà non disgiunto da quello altrettanto fondamentale della solidarietà, può contribuire alla ricostruzione del tessuto della comunità, promuovere lo sviluppo delle identità locali e dare rinnovata importanza al territorio.

Infine, una questione attuale su cui sentiamo di dover intervenire senza mezze misure è quella dell’immigrazione.

Già da tempo abbiamo formulato, insieme ad altri movimenti e associazioni cattoliche, un giudizio critico sulla legge Bossi-Fini che entrerà in vigore il prossimo 9 settembre. Una legge di cui non condividiamo l’impianto, che riduce il cittadino extra-comunitario a forza lavoro, che renderà più complicati e difficili i ricongiungimenti familiari, che non affronta il problema dei rifugiati politici. Nonostante questo ci siamo impegnati per ottenere almeno un minimo di dignità a tanti immigrati clandestini che lavorano onestamente nelle famiglie e nelle aziende e che di fatto non esistono come soggetti titolari di diritti di cittadinanza. Grazie anche alla nostra iniziativa e all’impegno dei centristi della maggioranza, si è ottenuta una possibilità di regolarizzazione per le colf e le badanti che lavorano nelle famiglie e, proprio oggi, il Consiglio dei Ministri dovrà discutere del decreto-legge per l’emersione degli extracomunitari che lavorano in nero nelle aziende.

A giudicare da quanti moduli sono stati ritirati e anche dalle tante richieste di consulenza presentate ai nostri uffici di Patronato, forse siamo di fronte alla più rilevante sanatoria o regolarizzazione di immigrati nel nostro Paese. Un effetto non certo atteso da chi aveva scritto il testo originario, ma che speriamo possa consentire a tante persone di poter condurre un’esistenza più libera e più dignitosa, nonché a dare una prospettiva serena ai loro figli. Per questo ci pare del tutto fuori luogo la sortita di Maroni - speriamo sia solo una sortita -, secondo cui bisogna limitare la regolarizzazione agli immigrati che hanno un lavoro a tempo indeterminato. Un autogol per un governo che basa la sua politica del lavoro sulla flessibilità. Una rozza contraddizione, per di più non giustificata anche da come l’opinione pubblica sta modificando la propria percezione sociale rispetto agli stranieri. Come infatti conferma anche un recente sondaggio dell’IREF, non è tanto il lavoro che fa percepire gli immigrati come una minaccia quanto i problemi legati alla convivenza sociale, alla vicinanza abitativa, a modelli culturali diversi. Qui si apre per le Acli un campo di lavoro difficile: non solo mettere a disposizione i nostri servizi per i cittadini extra-comunitari, ma promuovere una convivialità delle differenze. Nessun buonismo a buon mercato, perché siamo consapevoli che la diversità fa paura. La diversità di pelle, di lingua, di religione, di modo di affrontare la vita, di vivere la famiglia. Senza rinunciare alla nostra identità e alla nostra cultura, possiamo operare per creare dialogo, rispetto e, se possibile, convivialità.

Ancora una volta siamo rinviati al tema della comunità e della cittadinanza per la costruzione di un welfare municipale e comunitario che non sia però un modo per deresponsabilizzare lo Stato e le istituzioni pubbliche. Il welfare che verrà sarà più complesso di quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Al centro non ci sarà più solo il lavoro, ma anche la cittadinanza. Cercare di costruire un orizzonte d’uguaglianza sociale avrà a che fare con l’identità delle persone. Questo nostro Convegno sul welfare nel tempo della globalizzazione obbliga le Acli a stare vicine alla gente, a fianco dei cittadini, a partire dagli ultimi, riscoprendo il mandato originario della nostra associazione che Giovanni Paolo II ci ha nuovamente consegnato nella sua indimenticabile udienza del 27 aprile 2002 dove, dopo l’invito ad allargare i confini della nostra azione sociale, ci sprona ad essere: «fedeli laici che sappiano riconoscere nella realtà sociale e del lavoro le speranze e le angosce delle persone del nostro tempo, laici capaci di testimoniare con la loro vita i valori del Regno anche quando ciò comporti l’andare controcorrente rispetto alle logiche del mondo».

 

ROMANO PRODI (Presidente della Commissione Europea) intervistato da Bruxelles in video conferenza da Luigi Bobba (Presidente Nazionale delle ACLI)

 

ROMANO PRODI SULLE SFIDE

DEL WELFARE EUROPEO

 

B. La nostra posizione non è per alimentare un altro intervento militare. Sarebbe una iattura una nuova guerra.

P. Mi ha colpito la preoccupazione di Nelson Mandela, molto sensibile su questi temi, con cui ho parlato dopo il vertice di Johannesburg. Ho parlato con Colin Powell e aspettiamo gli eventi. L’Europa si è espressa e speriamo bene.

 

B. Cominciamo da Johannesburg: sei stato i quei giorni al Vertice. Certamente l’Europa non ha frenato, ha spinto a impegni concreti e un’agenda definita. Un bilancio del Vertice? L’Europa si è comportata bene a Johannesburg?

P. Cominciamo dal bilancio. All’inizio prevaleva il pessimismo, perché gli Usa avevano bloccato ogni accordo anche tra i 77; tra i punti non approvati bisogna porre attenzione su energie rinnovabili e dare dati quantitativi. Comunque l’80% degli obiettivi sono stati raggiunti; è andata bene, però l’atmosfera era di grande preoccupazione, che ho espresso anche a Colin Powell: perché la divisione tra Nord e Sud del mondo,  tra ricchi e poveri, sta aumentando. È ora di finirla: basta con commercio sì o no: ci vogliono investimenti per il commercio, ma se non abbiamo investimenti per sviluppare questi Paesi, non si risolve nulla. Il mondo si rende conto fino a un certo punto della situazione. L’Europa dà lo 0,33% del proprio reddito, ma è impegnata ad arrivare allo 0,39% ed è già un progresso, ma tre anni fa ci eravamo impegnati ad arrivare allo 0,70%, gli Usa arrivano appena allo 0,10-0,11%. Siamo in situazioni disperate. I grandi Vertici permettono tanti dialoghi e colloqui, erano presenti tanti leader, ma difficilmente possono dare una svolta se non c’è una persa di coscienza dei Paesi più ricchi. I risultati raggiunti non sono cattivi, ma si fronte ai problemi sia di salute che di giustizia nel pianeta è ben poco. L’Europa è l’unica che porta avanti queste questioni. Abbiamo insistito per la ratifica del protocollo di Kyoto, per salvaguardare la salute del pianeta; Cina e Russia hanno aderito (ho scritto personalmente a Putin), ma di fronte all’immensità del problema mi sembra che non ci sia una consapevolezza diffusa.

 

A proposito della ridefinizione delle politiche del welfare, alcuni paesi chiedono una maggiore presenza dell’Europa, altri una minore. Cosa ne pensi?

Credo che o accompagniamo un’Unione sociale a quella economia, o avremo sbilanciamenti forti : abbiamo un’unica moneta, andiamo vero una politica economica unitaria. La politica sociale non può essere lasciata solo agli stati membri. È chiaro che le decisioni restano nell’ambito dell’autonomia degli stati – o addirittura delle regioni -, ma andiamo verso una conoscenza reciproca dei nostri sistemi economici, dobbiamo scambiare esperienze, garantire servizi armonizzati ai cittadini, e lavorare per una convergenza che permetta ai nostri sistemi economici di essere efficaci. Questo è un problema  che si pone anche a livello europeo. Da 10 anni però su questi temi siamo stati vittime del pensiero unico: si credeva che il progresso fosse dato solo dal mercato. Gli ultimi mesi hanno dimostrato che il mercato senza regole diventa un far west. Questo ci obbliga a riflettere sul fatto che ci sono meccanismi da regolare, da correggere. Libero mercato, concorrenza e progresso che ne deriva sono importanti, ma c’è bisogno di regole, di controlli. Lo raccontano le cronache di politica economica degli ultimi mesi. Una riflessione seria, un’apertura mentale su questi temi è obbligatori. Non si vuole ritornare all’economia pubblica, a uno stato che gestisce la ricchezza, ma il sistema deve garantire anche i più deboli: non si può distribuire ¼ dei profitti ai top manager aziendali senza nessun controllo. Gli eventi dell’economia usa e non solo ci obbligano a riflettere.

Parlare di welfare in un ambiente come le Acli significa parlare di formazione, aspetto che non mi sembra sentito in Europa: l’aspetto della promozione e della giustizia date dall’istruzione e dalla formazione permanente non è stato affrontato seriamente. Se vogliamo una seria globalizzazione democratica, dobbiamo lasciare spazio ai Paesi più poveri. Possiamo e dobbiamo aprire il mercato al Terzo Mondo, mettendo più ricerca e intelligenza nella nostra formazione. È una sfida dall’esterno. Se vogliamo garantire il welfare, è un problema anche di risorse umane: su questo finora non è stato impiegato neppure un terzo dello sforzo.

 

Le Acli si stanno impegnando in una petizione sul diritto personale alla formazione permanente, mentre continua la discussione sull’art. 18. Non era pensabile una disciplina europea del lavoro, e del licenziamento?

Certamente è un’esigenza sentita, ma non credo sia di oggi, e neanche di domani. Per molti anni queste resteranno politiche nazionali, che poi andranno comunque armonizzate, ma né per l’oggi né per il domani vedo possibili soluzioni comuni. Forse per il dopodomani.

 

Est e Sud in questi ultimi tempi guardano all’Europa come un tempo si guardava all’America: è possibile andare vero una politica comune di integrazione?

Qualcosa in questo senso si sta già facendo: la libera circolazione di cittadini porterà senza dubbio regole più simili sulle tematiche dell’asilo, della cittadinanza. Ma è un cammino lungo, che richiederà tempo . Per il momento stiamo facendo progressi con le collaborazioni di polizia, giudiziarie; si parla di una custodia comune delle frontiere esterne dell’Unione. Ma deve essere chiaro che la nostra mentalità non è quella degli Stati Uniti d’America: noi non siamo un melting pot ma un’unione di popoli e di paesi, che conservano la loro identità. Quindi occorre essere vigili nel proteggere ovunque in Europa i diritti fondamentali di cittadini e lavoratori, creando politiche comuni dell’immigrazione. Su questo tema però c’è molte fariseismo: si parla di difesa della razza, si vogliono cacciare gli incivili, poi però si ha bisogno di loro per i lavori più umili. Dobbiamo fare un esame serio di noi stessi.

La nostra società ormai ha un identikit chiaro: i nostri giovani non fanno più i lavori più umili, che impegnano la notte, o i tempi in cui i loro coetanei si divertono. Una società così che non si ponga il problema di una politica attiva dell’immigrazione, di cui ha un bisogno folle anche dove c’è un livello alto di disoccupazione, è un on senso: deve farsi un esame di coscienza. Le follie che si sono dette negli ultimi tempi sulla superiorità di razza e simili sono contro i nostri valori ma ancora di più sono contro la nostra vita quotidiana. Una politica attiva dell’immigrazione però passa per il problema della casa, del ricongiungimento familiare, dell’integrazione scolastica. Sono queste le armi che rendono l’immigrazione una ricchezza. Sul rispetto della legge, poi, è chiaro che dobbiamo essere inflessibili, ma con tutti, italiani e stranieri. Ma allo stesso modo è chiaro che possiamo coprire le funzioni indispensabili di servizio e attenzione verso i nostri cittadini solo se capiamo che gli stranieri sono parte integrante della nostra società.

 

Negli ultimi giorni su Avvenire si parlava dell’Ulivo che si sta ristrutturando intorno alla capacità di governo di Prodi e alla capacità di ascoltare e radunare le piazze di Cofferati. Cosa ne pensi?

Dico solo che in questi ultimi giorni, in Sud Africa, non ho visto neanche una pianta di Ulivo … Solo una, in Madagascar, che però non aveva neanche un frutto.

Vorrei però dire qualcosa sul tema dell’allargamento. Anni fa si parlava molto di questo tema, del desiderio di tornare a respirare a due polmoni, dopo la caduta della cortina di ferro. Tutto questo ora lo stiamo realizzando, con tanto lavoro e poca retorica. E sembra che non importi più. L’Unione Europea si sta aprendo a 10 nuovi paesi, lavorando per un sentire comune che speriamo potrà evitare le guerre future. A dicembre dovrebbe esserci ormai il semaforo verde, perché si arrivi alle elezioni del 2004 con il voto di 10 nuovi paesi. E proprio ora sembra che questo non sia più importante: stiamo attenti a non essere vittime del futuro senza riconoscere i passi in avanti che sono stati fatti, altrimenti si perde fiducia. Vorrei che si capisse che questa Unione Europea che va trovando la sua stabilità, la sua identità, è un progresso enorme che è stato fatto: dateci una mano, fate opinione pubblica.

Questi fenomeni stanno cambiando la nostra vita. Certo, si parlerà di problemi da risolvere, verranno fuori gli aspetti negativi, ma è naturale, fa parte della contrattazione. Guardiamo alla sostanza di questo discorso: stiamo cambiando il volto del continente; stiamo facendo davvero una globalizzazione democratica. Quelli che entreranno nell’Unione sono paesi che hanno ¼ circa del nostro reddito. Qualcosa del genere non è mai successo, ed è consolante. Però abbiamo bisogno del sostegno dell’opinione pubblica quando tentiamo di sfondare in queste direzioni, che sono quelle per cui realtà come le Acli lavorano ogni giorno. Con questi processi si sta chiudendo un secolo di tragedie, e speriamo non se ne apra un altro. C’è un ordine di paesi di uguale dignità, stiamo realizzando un’«unione di minoranza», come l’ha definita una volta un deputato rumeno, dove nessuno prevale sull’altro. Credo sia la definizione più bella di Europa.

 

Prof. MASSIMO LIVI BACCI (Università di Firenze)

 

L'Italia nel 2023

 

Il titolo che avete dato al mio intervento è un po’ strano. Non so come sarà l’Italia tra venti anni.

Ci sono però alcuni fenomeni evidenti ed inarrestabili che possiamo individuare: il team dell’immigrazione e quello dei giovani. L’Italia come e più dell’Europa deve affrontare un periodo di passaggio da un’epoca con risorse umane sovrabbondanti ad un epoca di risorse umane scarse. L’Italia è infatti un paese bassissima natalità, come avviene per i paesi del Sud del Mediterraneo, più bassa della media europea. Questo passaggio di epoca causa  problemi di lunga durata: aumento degli anziani, diminuzione del numero di giovani e situazione stagnane del mondo del lavoro.  E’ cambiata la struttura per età. Oggi la popolazione lavorativa tra i 20 e i 60 anni nei prossimi 20 anni passerà dai 32 milioni attuali a 27 milioni. Questo calo potrà essere compensato da un aumento dei tassi di attività tra le donne e le persone mature, da un riassorbimento della disoccupazione e da un riassorbimento dei meccanismi dio mobilità. L’invecchiamento può essere bilanciato, ma non colmato. Oggi, in Italia, ci sono 17 milioni di persone tra i 20 e i 40 anni. Tra venti anni saranno 11 milioni – il 40% in meno – se in Italia non entrerà nessuno. Assistiamo allora ad un deficit demografico di grandissima portata. In Italia la proporzione degli anziani sul totale della popolazione è più alta rispetto agli altri paesi, anche in termini dinamici.

Un primo punto che vorrei affrontare è quello dell’immigrazione. L’Italia è in una situazione di grande schizofrenia in quanto non si vuole riconoscere la necessità degli immigrati.  Mentre questo potrebbe essere comprensibile a livello personale, ma non a livello politico: questo è evidente nella legge Bossi-Fini. Siamo in una situazione di deficit ed è evidente che in Italia c’è una domanda di immigrazione. Dobbiamo prepararci ad accogliere gli immigrati. Attualmente l’Italia ha scelto un immigrazione a rapida rotazione che non investe sull’integrazione: queat è un scelta suicida. La legge infatti ha fatto delle scelte che vanno nella direzione di una concezione dell’immigrazione a breve periodo. E la schizofrenia del governo viene a galla ancora con la sanatoria relativa a colf e badanti. Una sanatoria inevitabile (che coinvolge almeno 500mila persone) e che evidenzia la nostra schizofrenia privata e politica. Anche l’Europa adotta misure restrittive che vanno contro i suoi stessi interessi. Forse solo la Germania ha una legge che si base su un idea aperta all’immigrazione per lavoro e volta all’integrazione.          

Riguardo al secondo punto quali questioni si presentano alle future generazioni, che si presenteranno alla vita attiva. Queste saranno chiamate a compiti diversi, ma forse maggiore delle generazioni vissute prima. La vita lavorativa sarà più lunga, più incerta più flessibile, forse ci sarà maggior reddito.

Le nuove generazioni avranno il compito di raddrizzare la bilancia demografica. Oggi in Italia c’è la tendenza, soprattutto nel centro Nord ad avere un figlio per famiglia. La situazione non potrà cristallizzarsi in questo modo.

Le generazioni dovranno rispondere a tre questioni: un aumento del periodo lavorativo, aumento della natalità, responsabilità dell’assistenza-sostegno alle generazioni molto anziane.

Quali politiche potranno aiutare i giovani? Credo che non sia sufficiente un sostegno diretto alle famiglie. I paesi mediterranei dovranno investire di più non con trasferimenti alle famiglie, ma con msure rivolte a migliorare la condizione di vita dei giovani e giovanissimi: dalla scuola, agli spazi e alle strutture, in modo da costruire un abita, un contesto ospitale per i figli.

Inoltre l’Italia soffre di una “sindrome del ritardo”, ritardo delle scelte di vita, ritardo nel fare i figli, nel compimento degli studi. Servono politiche che riducano questo ritardo, che invertano la rotta.

 

Prof. PAOLO ONOFRI (Università di Bologna)

 

 La via italiana al welfare

 

L’attività d’impresa ha inevitabilmente risvolti sociali, ma sono problemi che sono stati affrontati tante volte, e che hanno costituito un veicolo di identità nazionale molto importante. Progressivamente, infatti, ci si è resi conto che dal punto di vista della copertura dei rischi individuali i singoli non potevano fare da soli. E lo Stato è cresciuto proprio attorno a questo problema di identità nella socializzazione dei rischi legati alla società industriale.

Per capire questa evoluzione, basta pensare a come è nato il Tfr negli anni ’20: come strumento di sostegno al reddito familiare in caso di disoccupazione. Alla fine degli anni ’60 poi è stato il tempo delle lotte per estendere la protezione nei luoghi di lavoro, mentre nel 1978 abbiamo portato avanti la riforma del sistema sanitario nella direzione dell’universalità della prestazione sanitaria, legata alla cittadinanza. Tutto questo, 5 anni dopo il primo chock petrolifero, quando i paesi nei quali gli ammortizzatori sociali erano più sviluppati che da noi stavano maturando dubbi sulla compatibilità tra i loro sistemi di protezione sociale e la crescita di offerta produttiva. Noi intanto andavamo estendendo il nostro welfare.

A metà anni ’90 quindi la riflessione sul nostro sistema di protezione sociale si è trovata a un bivio: dobbiamo completare il percorso avviato dagli altri paesi, e poi deviato nella direzione che accennavo, oppure orientarci direttamente verso i loro nuovi obiettivi? Rispetto agli anni ’60, la spesa pensionistica era passata dal 4% del Pil al 14-15%: era lo strumento più pervasivo nella diffusione della protezione sociale; quella per la sanità era arrivata dal 2,5 al 5,5 – 5,7; la spesa per l’assistenza e per gli ammortizzatori sociali era andata invece dal 4,2 al 3% del Pil. C’era quindi un forte sbilanciamento che sembrava suggerire di fare qualcosa per spendere proporzionalmente di meno in pensioni, puntando ad aumentare la protezione fuori dal posto di lavoro.

Questa indicazione però configgeva con l’analisi dei paesi a welfare più avanzato, secondo cui le spese per la protezione sociale possono ridurre la crescita potenziale, poiché l’uguaglianza non si combina necessariamente con l’efficienza. In questi ultimi 5 anni è stata arginata la crescita della spesa sanitaria, agli stessi livelli di 5 anni fa; non è aumentata la spesa per assistenza e ammortizzatori sociali, visto che la legge quadro del ministro Turco non ha trovato seguito nel governo Berlusconi. La spesa per il sistema pensionistico è sostanzialmente ferma da 3 anni.

Occorre chiederci se si può rinunciare alla copertura sociali sui rischi della vita individuale: vecchiaia, disoccupazione, salute. Personalmente direi di no. Oggi però viene offerta un’alternativa: quella del mercato. Dobbiamo riflettere se possiamo affrontare attraverso il mercato la copertura di questi rischi, visto che questa è la filosofia che sta emergendo lentamente. Nasce da qui la proposta delle assicurazioni integrative: potrebbe funzionare se fossero il frutto di enti bilaterali, ma se sono il risultato di una contrattazione, allora saranno legate alle forze in gioco nel mercato. La copertura del rischio quindi non sarebbe indipendente dal mercato, mentre il welfare sarebbe più compatibile con una ricerca di maggiore produttività. In alcuni documenti del governo c’è già questa prospettiva, che porta la pubblica amministrazione fuori dal suo ruolo tradizionale di mediazione.

Ciò non toglie che ci siano comunque dei vincoli da considerare. Il welfare è una forma di sostegno di natura pubblica, e deve fare riferimento a principi di cittadinanza non di natura lavoristica. Ecco perché è stato presentato lo Statuto dei lavoratori da parte dell’Ulivo, per permettere agli individui di accettare il rischio, dal momento che è la collettività che si offre di coprirlo. L’aspetto poco convincente è che si alza l’indennità di disoccupazione senza guardare ai destinatari, mentre ci sono dei percorsi di vita che devono passare per fasi di intermittenza del lavoro. Il Patto per l’Italia garantisce solo chi già riceve l’indennità di disoccupazione.

Abbiamo bisogno di mobilità occupazionale. Esistono coni di bottiglia molto consistenti dovuti alla posizione della disoccupazione, d’altra parte siamo posizionati in settori con ritmi lenti di crescita; ei primi ad essere colpiti siamo noi. Se vogliamo mantenere un tasso di crescita della capacità produttiva, dobbiamo avere mobilità del lavoro perché si sposti dalle aziende in declino a quelle con più mobilità sui mercati. Ma è necessario mettere sul mercato le protezioni sociali?

Siamo il Paese che invecchia più rapidamente nel continente che invecchia più rapidamente di tutti gli altri. Oggi gli anziani ultra 65enni sono 10 milioni 700mila, nel 2010 – cioè tra 8 anni – saranno 12 milioni. Almeno il 10% degli anziani è non autosufficiente; gli anziani sono prevalentemente soli, senza figli. Possiamo permetterci di mettere la condizione di un anziano solo in mano al mercato, di fronte a un’assicurazione sanitaria non facile da decifrare per i codicilli contrattuali? Sul piano politico la lobby degli anziani sarà più potente in futuro, ma ci saranno investimenti soprattutto sul piano della comunicazione più che dell’assistenza. Dobbiamo apprestarci a un sistema di copertura sociale del rischio della non autosufficienza, e farlo rapidamente. La nostra società va verso l’invecchiamento e ha bisogno sempre più di solidarietà, che sta affidando a una piccola percentuale di esseri umani il costo della flessibilità dei giovani. Abbiamo bisogno di un orientamento efficiente ed equo della spesa per fra trovare i canali della solidarietà.

 

Don VITTORIO NOZZA (Direttore Caritas italiana)

 

Il welfare è un tema grande e significativo, sui cui vi consegno 5-6 parole.

1) L’itinerario italiano al welfare non è separato da quel movimento di liberazione umana che ha seguito l’estendersi di industrializzazione, la nascita del proletariato, il conflitto di classe. Il termine “welfare” si è formato tardi e con connotazioni improprie, così come la definizione di “stato sociale”. In Italia si è parlato di “sicurezza sociale”. Volendo trovare le tracce di un contributo cattolico nel cammino percorso, la sicurezza sociale costituisce un capitolo del più vasto ambito della giustizia sociale. Tra le caratteristiche dell’approccio cattolico alla sicurezza sociale, la diffusione della giustizia per tutti e la convinzione che non sia mai praticabile una rinuncia di libertà in cambio di una ricerca di benessere.

2) Sicurezza sociale: diventa un concetto di sintesi nel dopoguerra. La miseria per disoccupazione era stata inflitta a ingenti masse umane in tutto l’Occidente. Il capitalismo con la sua flessibilità accettò o patrocinò un insieme di protezioni sociali; la sicurezza sociale significò la volontà di contrastare la precarietà provocata dalla crisi. Purtroppo oggi il capitalismo viene bollato, né migliore sorte per coloro che denunciarono l’offesa alla dignità umana insita in ogni determinismo economico.

3) Nel ’49, alla Settimana sociale dei cattolici, che fu impostata con un respiro costituente, il tema scelto fu proprio la sicurezza sociale. Si parlò di universalizzazione dei servizi: coprire tutti gli eventi di bisogni sociali; di unificazione, cioè lavoro in rete nella previdenza. Si parlò anche dell’opera di advocacy e allo stesso tempo degli aiuti concreti, dell’azione soccorritrice che nessuna giustizia riesce a coprire. Ci fu un’espansione della tutela di cittadinanza. Pietro Pavan, allora professore di sociologia, parlo di diverse tendenza da incoraggiare. Mise in evidenza la necessità: di semplificare lo Stato, in particolare per quanto riguardava la riscossione di tributi; di realizzare una universalizzazione dei servizi; di unificare, attraverso un lavoro di nero, i vari istituti e realtà che realizzavano la previdenza e l’assistenza. In quell’occasione si mise ancora in evidenza il tema della salute, dell’assistenza sanitaria, che deve essere garantita a tutti e quello della disoccupazione che va contenuta entro determinati limiti per evitare che si verifichi una disoccupazione di massa. Si parlo infine del ruolo delle Opere di carità che oggi si rivelano più necessarie (oggi parliamo di advocacy) per infondere un accento umano e cristiano alle forme stabilite di sicurezza sociale.

Altro punto chiave è il rapporto tra Stato ed enti intermedi che deve valorizzare tutti gli attori sociali: dalla persona alla famiglia, dalle istituzioni locali ai sindacati, dalle associazioni allo Stato. Mentre storicamente il capitalismo e il liberismo hanno cercato forme di compatibilità con le esigenze dei diritti dei cittadini, oggi lo stato sociale è considerato come opzionale. Lo Stato è inviato a farsi da parte per consegnare agli “spiriti vitali” il timone della storia. Siamo di fronte ad un grosso cambiamenti etico-culturale. Precedentemente la concezione dello stato era guidata da una dottrina dell’inclusione, delle tutele garantite tendenzialmente a tutti. Oggi, invece la prassi visibile adottata dallo stato è quella dell’esclusione. Siamo invitati ad arrangiarci. I ricchi si affidano all’assistenza sanitaria privata e possono detrarre dalle tasse le spese, ai poveri è assicurata una assistenza residuale. Si delinea sul piano culturale un rovesciamento delle priorità. Ciò che conta e la produttività e la competitività. C’è l’idea che la sicurezza sociale danneggi lo sviluppo economico. La sicurezza sociale va ridotta al minimo. Vi è in questo discorso una forte carica ideologica che porta alla flessibilità del lavoro, allo stato minimo, al non correggere il commercio estero. Si sta delineando una società a quattro strati: esclusi; precari; garantiti; privilegiati.

Un’azione politica  che voglia avere una valenza sociale di giustizia deve mettere al primo posto la questione del lavoro: contrariamente a quanto si riteneva fino a 50anni fa, l’obiettivo della piena occupazione non può essere perseguita soltanto attraverso manovre di mercato come investimenti e fisco. Né è sostenibile il ricorso permanente a forme più o meno assistenziali di intervento o si può imporre il sovraccarico di un “imponibile di manodopera”. Non si può evitare un percorso che riattivi, in forme moderne, un ruolo propulsivo dello stato della promozione e dello sviluppo economico e sociale, anche mediante alcuni grandi interventi operativi (es acqua nel Mezzogiorno) che aiutino lo sviluppo e l’impiego. Il primo capitolo del welfare che verrà non può non essere quello dell’occupazione e della programmazione necessaria per conseguirla.

La seconda questione è quella della salute come diritto esigibile di ogni cittadino, o meglio residente. Va detto con chiarezza che il servizio Sanitario Nazionale ha senso soltanto se finanziato con il gettito fiscale, nel senso che tutti pagano per tutti e non consente disaffiliazioni di alcun genere. Un terzo input è relativo al concetto di sistema integrato  definito legislativamente nel campo dell’assistenza dalla 328/2000. Il principio di integrazione opera in diversi ambiti: sociale, sanitario, educativo-formativo. Si integrano i soggetti chiamati in causa e tutele funzioni operative.

E la Chiesa quale ruolo può avere? Se guardiamo alle realtà locali, alle comunità, al loro modo di rapportarsi con la parola di Dio non letta fuori del tempo si apre un orizzonte sconfinato di impegno educativo e pratico. Come laici credenti è nostra responsabilità scegliere tra partecipazione assenteismo, tra indifferenza e impegno, tra il prendersi cura degli altri e il farsi i fatti propri. Riprendendo una affermazione di Don Tonino Bello: «il volontariato ... deve sentirsi padre di cultura più che produttore di servizi, generatore di coscienza critica, più che gestore degli scarti residuali dell’emarginazione sfuggiti alle bene remunerate ditte appaltatrici di un assistenzialismo inerte».

 

On. TIZIANO TREU (Responsabile Lavoro e Previdenza Sociale per la Margherita)

 

Parlare di Welfare oggi è particolarmente importante.  Sono molti motivi che cambiano le condizioni dell’attuale sistema di Welfare. Potremmo dire per questo che c’è bisogno di più Welfare. Vorrei mettere in evidenza tre questioni. I bisogni del nuovo Welfare sono più complicati. Un Welfare più lungo di prima, più intenso, collettivo e diversificato. Sono nati nuovi bisogni. Ad esempio nel campo della formazione che deve investire l’intero arco di vita della persona soprattutto in relazione ai problemi di flessibilità del mercato del lavoro. In questo periodo le famiglie hanno bisogno di soldi, servizi e tempo per essere aiutate. Ci sono bisogni più diversificati: un co.co.co (collaboratore coordinato e continuativo) ha bisogni diversi da quelli dell’operaio della Fiat.  Tutto ciò significa più costi e più personalizzazione. Sono le nostre Società: Stato e Comunità a dovere fare qualcosa. Un impegno che inizia con l’occupazione. Non a caso a Lisbona l’Unione Europea collega lavoro e sviluppo. Alzare il tasso di occupazione  è motore  di sviluppo  per reggere i bisogni crescenti.

Come Ulivo ci stiamo occupando di due problemi: uno è i diritti in senso stretto, l’altro affrontare la vecchiaia in modo più completo. Lo statuto dei nuovi lavori va visto in termini di diritti in particolare per quanto riguarda l’organizzazione e la contrattazione. L’obiettivo è estendere a quasi metà del mercato del lavoro questi diritti. L’idea di fondo è quella di mettere in campo un sistema di protezione contro i rischi connessi alla flessibilità del lavoro (interventi di reinserimento lavorativo e di sostegno alla formazione continua). Per affrontare la vecchiaia in modo più completo non basta alzare le pensioni, ma non bisogna lasciare soli gli anziani.  E’ necessario attuare provvedimenti più incisivi per un Welfare di cura. Noi non ce la possiamo fare da soli. Il problema è complesso; riguarda tutta l’Europa. Ci sono diversità enormi da un modello inglese e irlandese – poche tasse pochi aiuti – a un modello nordico – tante tasse tanti aiuti -.  

In trent’anni non c’è stato nessun processo di avvicinamento dei sistemi di Welfare in Europa. Ognuno rimane con lo stesso bilanciamento tra egoismo e solidarietà.

L’Unione Europea potrebbe essere un’occasione per sviluppare un sistema di Welfare comune ai paesi membri. C’è un problema di efficienza oltre che di costi: serve un’attivazione delle persone.

 

7/9/2002

Mons. GIOVANNI NERVO (sintesi)

 

Desidero richiamare alcuni fondamenti della fede per il welfare che verrà (cfr. brano del Vangelo di Giovanni della lavanda dei piedi). La Parola di Dio deve essere assunta come guida: “Lampada per i miei passi è la tua Parola”, luce che illumina i nostri passi, che ci indica dove mettere i piedi. Per un’associazione come la nostra, che si gloria del nome cristiano, la luce per le nostre scelte non può non venire dalla Parola di Dio.

Il brano della lavanda dei piedi presenta una struttura tripartita in uso tra i rabbini: il gesto sconcertante di Gesù, che suscita una domanda tra i discepoli e fornisce un insegnamento, che interessa anche a noi. Come il Maestro si è messo a servire, così i discepoli sono chiamati a farlo. Il gesto di lavare i piedi non offusca la gloria di Gesù, ma la rivela. Così la comunità cristiana è chiamata a intraprendere la strada del servizio umile per amore: l’autorità della Chiesa si rivela nel servizio, che non sminuisce la sua dignità, ma rivela la sua identità. Tutta la vita è servizio: nel lavoro, nella politica, nella famiglia, nel volontariato.

Oggi si usa dare molto rilievo al servizio del volontariato, ricchezza della società, ma occorre ricordare altre forme di servizio molto più importanti: quella dei coniugi e dei genitori nella famiglia, il servizio più impegnativo e carico di conseguenze, scarsamente riconosciuto dalla società. Poi il servizio del molteplice lavoro quotidiano: il giusto riconoscimento dato al volontariato può far dimenticare che il lavoro è un servizio, anche se non è gratuito; così come sono servizi pagare regolarmente le tasse, la funzione politica della società civile. Far funzionare bene le istituzioni e far tutelare i diritti delle persone, a partire dalle più svantaggiate, non è un compito del Terzo Settore, che c’è ma può anche non esserci. Il contributo più importante del volontariato nella società non è tanto quello di offrire servizi gratuiti, ma permeare tutti i campi dell’esperienza umana con i valori di servizio e gratuità. Il servizio civile, ad esempio, è un campo importante per educare a questi valori da portare nella vita.

Lo specifico cristiano del servizio è l’amore: un “habitus”, un atteggiamento, uno stile di vita. Il servizio alla persona, come il welfare, tiene sempre la persona al centro. A volte però questo non è scontato: l’ospedale, i medici e le loro ricerche sono sempre per i malati o viceversa? La scuola è sempre per i ragazzi e le loro famiglie, o è per la carriera degli insegnanti? L’appoggio dato al volontariato è per il bene delle persone, oppure per risparmiare sui costi e garantirsi voti? E poi, la legge sugli immigrati mette al centro le persone – italiani e stranieri – oppure è l’accettazione forzata di manodopera a basso costo da usare a nostro piacimento per poi farne a meno e rimandarla a casa quando non serve più? Il vincolo di lavoro e il limite posto ai ricongiungimenti familiari sono in netto contrasto con la logica della lavanda dei piedi, segno di una cultura che non mette al centro la persona. Molti “cristiani” che vanno a Messa la domenica sono su questa linea.

Anche la svolta economicistica – italiana e non solo – è per migliorare i servizi alla persona o per migliorare i profitti di chi sta già bene? I tagli alla sanità e l’attuazione della legge 328 sono per garantire l’universalismo dei servizi oppure per tornare a un assistenzialismo a basso costo?

Come mantenere lo spirito evangelico del servizio nelle politiche sociali, nel welfare che verrà? Questa è la sfida che abbiamo davanti. Gesù pone il problema dell’autorità e del potere. Lui ha il massimo dell’autorità e il massimo del potere, perché sa che il Padre ha messo tutto nelle sue mani, ma li afferma de esercita attraverso il servizio dello schiavo, che non diminuisce ma accresce la sua autorevolezza. .

Il problema del potere è un problema umano, che però rivela anche la debolezza dell’umanità: era presente già nel gruppo dei dodici, anche quando Gesù sta per salire al cielo discutono su chi è il più grande. Di questa pasta Gesù ha fatto la Chiesa. Poi però lo Spirito cambia il loro cuore, e vivono fino in fondo lo spirito della lavanda dei piedi. E ancora oggi il problema del potere è presente nella Chiesa, e anche nelle Acli, immagino: il potere è un fatto umano, non diabolico, che è necessario per potere esercitare l’autorità. Ma va tenuto sempre sotto controllo, perché non diventi strumento per servire ad interessi personali. In questo senso l’esempio di Gesù è di grande attualità. Anche nella costruzione del welfare entra in gioco questo rapporto con il potere, che in una democrazia appartiene al popolo, che delega alle formazioni politiche. A loro il compito di esercitarlo nella politica nazionale per il bene comune, dando la precedenza ai più deboli.

È nata da qui la crisi dei partiti: quando hanno perso il senso del servizio per il bene comune, rafforzando il potere per i propri interessi. E mettendo a serio rischio la democrazia. Il consenso popolare infatti non è automaticamente garanzia di democraticità: Hitler, ricordava di recente Enzo Biagi, è andato al potere con il 90% dei voti. Perché la democrazia sia reale occorre che la società civile eserciti la sua funzione politica, come ricordava nel 1991 il documento dei Vescovi “Educare alla legalità”. Controllo, stimolo, una partecipazione reale alla vita pubblica: sono questi terreni specifici della società civile, chiamata a farsi carico dei problemi generali del paese, a denunciare disfunzioni e bisogni. Non è un documento di sinistra, è un documento della Cei, forse non preso abbastanza sul serio.

Le Acli, espressione cristiana della società civile, hanno sempre contribuito ad esercitare questa funzione, operando in un campo in cui la comunità cristiana non è sempre presente. Come accentuare oggi questo stile di servizio nel mondo del non profit come in quello delle istituzioni, nelle sedi legislative, e così via? Eppure è proprio in questi campi che siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo oggi. Certo, lo stile proposto da Gesù è controcorrente, ma lui ci aveva avvisato. Questo umile servizio per amore non si improvvisa ma è frutto dell’innesto della vita divina in noi, attraverso la nostra fedele collaborazione. Proprio per questo solo una spiritualità coltivata nella preghiera, nell’ascolto della Parola, nella vita sacramentale, può far scaturire, come azione dello Spirito, lo stile evangelico della lavanda dei piedi.

Mi piace ricordare, in questo senso, la testimonianza di Luciano Tavazza. Al suo funerale la moglie mi raccontò di aver trovato nella sua agenda le sue note quotidiane alla Lectio divina. Da qui lui attingeva la luce per i suoi numerosissimi impegni. Questa luce deve illuminare tutte le nostre giornate, le nostre scelte, e non solo i momenti di spiritualità, perché in ogni momento Dio continuamente ci ama, e le nostre scelte quotidiane sono una risposta al suo amore.

 

IL WELFARE A MISURA DI FAMIGLIA

 

            Convegno ACLI su “Il welfare che verrà. La nuova frontiera dei diritti nel tempo della globalizzazione” – Vallombrosa, 7 settembre 2002

           

 Prof. Luigi Campiglio (Università Cattolica di Milano)

Introduzione

 

I sistemi di welfare dei paesi avanzati rappresentano istituzioni complesse, ciascuno con la propria storia, caratteristiche e obiettivi: più che cercare definizioni è quindi corretto individuare modelli e alcune funzioni comuni e fondamentali. Fra queste la prima funzione è quella dell’equità, interpretata come uguaglianza nell’ambito di un sottoinsieme o uno strato rilevante della società, in un dato periodo o sull’intero arco di vita delle persone: equità per i bambini significa l’obiettivo di fornire a tutti loro le stesse opportunità di vita, tenendo conto sia delle diversità delle famiglie in cui vivono, che delle loro differenti attitudini. La tassazione sulla base della capacità contributiva richiede che soggetti di eguale capacità paghino la medesima imposta –  è l’equità orizzontale - e alle persone con maggiore capacità richiede di pagare imposte maggiori – è l’equità verticale. La seconda funzione è quella dell’efficienza: non sempre il mercato è in grado di funzionare – ad esempio non è possibile acquistare polizze di assicurazione contro la disoccupazione e dopo i 70 anni le società di assicurazione rifiutano di stipulare contratti per l’assicurazione malattie – e in tali stuazioni il welfare svolge una funzione di sussidiarietà rispetto al mercato, distribuendo sull’intera collettività i rischi che le imprese private non sono disponibili ad assicurare. In questo caso acquista un ruolo cruciale l’efficienza e l’efficacia del settore pubblico nel fornire servizi ai cittadini: molti problemi (quando non crisi) del welfare nascono dalle sacche di inefficienza delle prestazione pubbliche. I sistemi di welfare devono essere altresì istituzioni dinamiche, che rispondono in tempi brevi al mutare delle caratteristiche e dei problemi delle società: una concezione statica del welfare è condannata all’inefficienza. In Europa, e in particolar modo in Italia, il fattore di cambiamento forse più importante è rappresentato dal brusco declino della natalità, in particolare dagli anni ’80 a oggi: lo “shock demografico” che ha investito l’Italia ha avuto, e avrà, conseguenze più profonde degli “shock petroliferi” passati e futuri. La famiglia è diventato punto di partenza e di arrivo di tutti i più importanti problemi economici e sociali dell’Italia, senza che tuttavia il sistema di welfare abbia colto la rilevanza dei mutamenti avvenuti adattandosi ai problemi attuali e futuri. La riforma del sistema fiscale proposta dal Governo rappresenta forse l’ultima occasione per promuovere un welfare dinamico che ponga al suo centro la famiglia e la catena generazionale come elemento centrale di criticità del sistema.

 

1. Famiglia e catena generazionale.

 

1.1. La famiglia, ancora prima dello Stato, è il soggetto che promuove l’equità nella sua forma più radicale, e cioè l’uguaglianza di fronte al bisogno: le disuguaglianze che si creano all’interno del mercato, dove le risorse sono (o dovrebbero) essere distribuite in base al merito, sono riequilibrate all’interno della famiglia, dove le risorse sono (o dovrebbero) essere distribuite in base al bisogno. La famiglia ridistribuisce fra i suoi componenti i rischi di ciascuno, non diversamente da quanto avviene da una società di assicurazione: ad esempio il rischio del disoccupato viene assorbito dagli altri componenti che lavorano. La capacità della famiglia di ridistribuire i rischi individuali fra tutti i suoi componenti dipende, naturalmente, dal numero di componenti: da questo punto di vista è quindi importante osservare come la diminuzione del tasso di natalità si è accompagnata a una diminuzione della dimensione media della famiglia e quindi della sua capacità assicurativa. Secondo i dati del Censimento, nel 1951 la dimensione media dalla famiglia in Italia era di 4 componenti: da allora la dimensione media è diminuita a 3,7 nel 1961, 3,4 nel 1971, 3 nel 1981, 2,8 nel 1991 e, infine, 2,6 nel 2001: nel giro di 50 anni la dimensione media della famiglia è diminuita di più di un terzo e quindi anche, in corrispondenza, anche la sua potenzialità di ridistribuire i rischi individuali fra i suoi componenti. Non solo: la diminuzione della dimensione media della famiglia implica una diseconomia (dinamica) di scala di cui non si è mai tenuto conto, come conseguenza del fatto che il costo del vivere per una famiglia di 4 componenti adulti è inferiore alla somma del costo di 2 famiglie, ciascuna di 2 componenti.

 

1.2. Al declinare del ruolo economico della famiglia è cresciuto il ruolo di ciò che definisco la catena generazionale: una catena generazionale è una comunità di generazioni, unite da legami di consanguineità, che vivono lo stesso tempo e che si collegano al tempo passato: nel caso italiano si tratta di una comunità di 6/7 persone, composta da 1/2 figli (minori), i suoi 2 genitori e 3 nonni.

Il contenuto e le implicazioni del concetto di catena generazionale appaiono evidenti quando si consideri, senza equivoci di nostalgia per un passato  duro e faticoso, l’organizzazione familiare di un’economia agricola. Nel cortile della cascina i bambini giocavano e gli anziani riposavano, mentre i loro figli lavoravano nei campi per il sostentamento di tutti. Nella società industriale prima e nella società dei servizi poi, l’unità della catena generazionale si spezza, determinando luoghi di vita diversi delle generazioni, e anche, in modo più complesso, la natura economica del loro rapporto. In una democrazia moderna il rapporto fra i figli che lavorano e gli anziani e i bambini che non lavorano è il risultato simultaneo di una ridistribuzione che avviene sia in modo diretto, come nelle vecchie società agricole, sia in modo indiretto per il tramite dello Stato. La ridistribuzione indiretta avviene, di regola, attraverso il prelievo di oneri sociali dal monte salari, in modo da finanziare il pagamento dei diritti pensionistici maturati: il lavoratore che paga non ha alcun rapporto diretto con il titolare dei diritti. Al tempo stesso, tuttavia, si realizza una ridistribuzione diretta di risorse, all’interno di ciascuna catena generazionale: le forme di tale ridistribuzione sono molteplici. I nonni possono aiutare i loro figli, tipicamente per l’acquisto della casa, ma anche per eventuali emergenze economiche:  ma al tempo stesso i figli possono aiutare i nonni quando questi non hanno più una completa autosufficienza. L’efficacia delle politiche sociali va orientata, quando possibile, sulla catena generazionale e non sul nucleo delle famiglie ristrette. Il giovane disoccupato può ugualmente godere di un buon tenore se i suoi genitori dispongono di un buon reddito e, all’opposto, una famiglia che disponga di un buon reddito può avere difficoltà economiche per pagare le cure e l’assistenza di un genitore anziano.

 

2. Una democrazia per i più deboli: bambini e anziane sole

 

2.1. Democrazia e “welfare state” trovano la loro comune legittimazione nei concetti di cittadinanza, inclusione e uguaglianza: vi è tuttavia una fondamentale differenza. In democrazia il potere del governo è legittimato dalla maggioranza dei rappresentanti eletti: la maggioranza parlamentare può consapevolmente prendere decisioni in opposizione e contro la volontà della minoranza e soprattutto contro gli interessi degli elettori, in primo luogo della minoranza ma a volte anche a danno degli elettori della maggioranza. Questo non è necessariamente un problema serio, specialmente quando si ricordi la profonda intuizione di Elias Canetti, il quale scrive che l’atto del votare nell’urna rappresenta in realtà una rinuncia alla  guerra civile: rimane tuttavia irrisolto il problema di una potenziale “tirannia della maggioranza” che già Tocqueville aveva anticipato nel 1800 a proposito della democrazia negli Stati Uniti. Nell’Unione Europea (a 12) le spese per la protezione sociale rappresentavano, secondo le statistiche dell’Eurostat, un’incidenza del 27,5 percento rispetto al Pil, nel 1999: in Italia quest’incidenza era inferiore e pari al 25,3 percento, mentre era invece superiore in Germania (29,6 percento) e Francia (30,3 percento). Per quanto riguarda le spese per la famiglia e i figli la quota era dell’ 8,2 percento in Europa (a 12), del 3,7 percento in Italia contro il 10,5 percento in Germania e il 9,8 percento in Francia. Se il Governo in carica ha la responsabilità di ridistribuire all’interno del paese una quota così elevata del reddito prodotto, le decisioni parlamentari in materia di “welfare state” sono necessariamente influenzate dagli orientamenti dell’elettorato. Ma se i diritti di cittadinanza sono la legittimazione del “welfare state”, il rischio di una tirannia della maggioranza diventa più concreto, perché una decisione politica può potenzialmente danneggiare un diritto che dovrebbe essere invece tutelato. In politica i voti si contano e non si pesano: in un certo senso è ormai parte della nostra cultura un principio di ragione insufficiente, che per gli stessi motivi addotti da Laplace, ci porta a dare per scontato che non vi sono ragioni sufficienti per ritenere che gli uomini siano fra loro differenti. Ma la differenza fra gli uomini è invece a fondamento centrale del “welfare state”, sia dal punto di vista assicurativo che dal punto di vista etico: se abbiamo valide ragioni per ritenere che due individui siano fra loro diversi, ad esempio perché uno è portatore di un handicap e l’altro no, abbiamo allora informazioni sufficienti per trattarli in modo diverso. La conclusione è che nell’allocazione delle risorse per il welfare le persone si possono (e devono) pesare sulla base delle informazioni disponibili, anziché semplicemente contare: si possono pesare, sia pure indirettamente, le sofferenze delle persone  misurando la quantità di risorse necessarie per eliminarle.  

 

2.2. Il problema della “tirannia della maggioranza” si ripropone anche nell’ambito del “welfare” per la miriade di piccoli gruppi sociali che vivono situazioni grandi sofferenze: in alcune situazioni l’essere “piccoli” può moltiplicare il potere di contrattazione esistente, come nel caso di alcuni piccoli sindacati di categoria, ma se il potere di contrattazione di partenza è zero, perché il gruppo sociale è piccolo e debole, non vi è modo di ottenere un risultato positivo. In un suo famoso saggio dal titolo “La mediana non è il messaggio” il geologo e antropologo Stephen Jay Gould, recentemente scomparso, porta come esempio  la sua personale esperienza di fronte a una grave malattia per sviluppare la sua tesi e cioè l’importanza centrale della variabilità individuale come caratteristica centrale dei processi evolutivi: egli mette in guardia contro il pericolo che il concreto fenomeno della variabilità venga mascherato da un’astratta misura statistica come la media o la mediana. Una considerazione analoga vale per l’economia e la società e, per ragioni diverse, dobbiamo evitare il rischio di una “tirannia della maggioranza” statistica che porta ad attribuire rilievo economico e politico solo ai fenomeni che siano statisticamente rilevanti: non possiamo limitarci a contare le persone proprio perché le persone “contano”, ciascuna con la propria vicenda umana. Essere pochi, qualificati e ben organizzati può essere un vantaggio nell’arena politica ed economica, ma essere pochi e non organizzati diventa invece una colpevole debolezza nei momenti della difficoltà. Con Marshall abbiamo imparato il vantaggio di essere “poco importanti”, ma con Hicks abbiamo chiarito che in alcuni casi “è importante essere importanti”. E’ questo il caso di alcune grandi questioni sociali come i minori in povertà, in particolare bambini, le famiglie di genitori soli con figli e le donne anziane “singole” sopra i 75 anni: abbiamo analizzato le condizioni economiche di questi gruppi sociali allo scopo di evidenziare

 

2.3. Secondo le statistiche Eurostat nel 1996 il 21 percento dei minorenni nell’Unione Europea viveva in famiglie a basso reddito e di questi il 23 percento viveva in famiglie con un solo genitore: circa la metà di tutti i minorenni in famiglie con un solo genitore viveva in condizioni di povertà. In Italia il problema delle madri sole è di grande rilievo sociologico: per quanto riguarda invece le caratteristiche economiche abbiamo analizzato  le famiglie con figli minori e un solo genitore, sulla base del campione utilizzato dalla Banca d’Italia per l’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2000. In particolare abbiamo considerato le caratteristiche delle famiglie monoparentali, con la presenza di un solo genitore, e uno o più figli minori: abbiamo ulteriormente distinto questa categoria fra le famiglie monoparentali “pure”, composte solo dal genitore e i figli, e le famiglie monoparentali in cui vi è la presenza di un parente anziano, cioè presumibilmente del nonno che vive con i suoi nipoti. Come base di confronto abbiamo selezionato le caratteristiche economiche e sociali di tutte le famiglie in cui è presente almeno un minore. Nel confronto con tutte le famiglie con almeno un figlio minore, le famiglie con un solo genitore e almeno un figlio minorenne hanno come (prevedibile) caratteristica centrale il fatto di essere composte per quasi il 90 percento da donne madri: ulteriori caratteristiche rilevanti riguardano la maggiore concentrazione nei medi e grandi centri urbani, nel nord-ovest e al centro, il fatto che il genitore lavori con maggiore prevalenza nel settore dei servizi, privati e pubblici e che, soprattutto, più della metà delle famiglie monogenitore viva in affitto (rispetto al quarto delle altre famiglie) e infine, il fatto che  il genitore singolo possieda un titolo di studio mediamente più elevato (diploma di scuola superiore o laurea). Il reddito medio totale delle famiglie monogenitore era, nel 2000, inferiore di circa il 30 percento rispetto al reddito di tutte le famiglie con almeno un figlio minore, mentre se consideriamo il reddito pro-capite il divario si attenua al 13 percento: sulla base della nostra analisi le maggiori difficoltà economiche riguardano le famiglie monogenitore che vivono in abitazioni in affitto, il cui costo monetario è stimato in circa 2600 euro l’anno (5 milioni di lire annue) rispetto a un reddito totale di circa  19500 euro all’anno  (37,7 milioni all’anno).

Se si accetta l’idea che per fare una famiglia bisogna almeno essere in due il termine di famiglia con un solo componente rappresenta una contraddizione di termini: l’espressione anglosassone di “single”, cioè i singoli, esprime questo concetto senza aggravarlo di particolari connotazioni valoriali. Fino ai 50 anni i singoli sono in prevalenza uomini, ma dopo i 65 anni, e ancora di più dopo i 75, i single sono in prevalenza donne (per quasi l’80 per cento). Una parte rilevante di persone anziane vive in piccoli comuni: i dati disponibili non ci consentono di discriminare se ciò è il risultato di una scelta recente o semplicemente gli anziani soli continuano a vivere dove sono nati. Al disotto dei 50 anni si tratta di persone con un elevato titolo di studio, mentre in età più avanzata il titolo di studio è in gran parte la licenza elementare: ciò rispecchia indubbiamente anche la distanza generazionale fra i due gruppi considerati.

Se consideriamo la distribuzione del reddito la principale caratteristica è rappresentata dalla forte distanza che separa il reddito medio degli uomini da quello delle donne: nel caso di singoli sopra i 75 anni il reddito medio è di 37,1 milioni per gli uomini e di 22,1 milioni nel caso delle donne: per gli uomini è più elevato sia il livello della pensione che il reddito da capitale e quindi, presumibilmente, è anche più elevato lo stock di ricchezza finanziaria.

 

3. Una riforma fiscale per la famiglia.

 

3.1. La riforma del sistema fiscale proposta dal Governo ha come caratteristica centrale uno sforzo di semplificazione del meccanismo di prelievo, portando a due le aliquote marginali e conservando la progressività ai bassi livelli di reddito attraverso la modulazione di un reddito minimo esente: la semplicità dei meccanismi fiscali è una questione di democrazia, e non puramente contabile, perché aiuta a riportare il contribuente alla sua posizione di cittadino, con l’effettiva possibilità di quantificare il suo contributo di imposta, facilitando in tal modo un confronto fra ciò che paga e ciò che riceve dalla collettività, in un dato periodo così come nell’arco della sua vita. La vera progressività fiscale di una società moderna non si rivela semplicemente dalla rapidità della curva delle aliquote, quanto piuttosto dal saldo netto fra ciò che i contribuenti pagano e ricevono dalla collettività: in un sistema fiscale efficiente ed equo la progressività si misura dal fatto che il saldo netto a favore del contribuente cresce all’aumentare del reddito imponibile. La riforma Tremonti, e in particolare la semplificazione a due aliquote, è da apprezzare perché si muove in questa direzione ma dimostra altresì la difficoltà del processo di transizione. Per assorbire i possibili effetti negativi che derivano dalla riforma è stata prevista un’importante, ma problematica, clausola di salvaguardia in base alla quale nessun contribuente debba perdere come conseguenza del passaggio dal vecchio al nuovo sistema fiscale. Nel frattempo un primo serio problema è emerso come conseguenza del processo di regionalizzazione del sistema fiscale: da un lato esso è l’espressione di una nuovo e potenzialmente innovativo potere di governo sul territorio, ma dall’altro ha portato a un’improvvisa diversificazione delle addizionali regionali e locali, portando un elemento aggiuntivo di complicazione, e non di semplicità, rispetto al sistema attuale, con l’inevitabile percezione di un aumento della pressione fiscale.

Per quanto riguarda invece la fiscalità per la famiglia l’anomalia più evidente riguardano gli Assegni al nucleo familiare e le detrazioni per figli a carico: l’articolazione dell’importo degli assegni, per classi di reddito e tipologia familiare, è un complicato e incomprensibile rompicapo di cui è difficile cogliere la logica, mentre le detrazioni hanno il problema di essere un beneficio economico difficile da misurare e soprattutto tardivo, perché conteggiato in un’unica soluzione al momento della dichiarazione dei redditi. Gli Assegni al nucleo familiare sono invece certamente da preferire ad altre forme di intervento perché rappresentano un ammontare di liquidità aggiuntiva per la famiglia con caratteristiche di regolarità e certezza temporale: la certezza dell’importo può essere ottenuto solo semplificando drasticamente l’attuale miriade di Assegni a due, o comunque poche, categorie di importi.

 

3.2. Nel DPEF attualmente in discussione si conferma che per il completamento della riforma Tremonti è previsto un orizzonte temporale di 5 anni: la prima tranche di attuazione nel 2003 prevede un intervento sui redditi più bassi IRPEF, con un impegno di 5,5 miliardi di euro, una diminuzione di due punti dell’aliquota IRPEG e una riduzione della base imponibile IRAP. L’ISAE ha recentemente condotto (luglio 2002) una simulazione degli effetti della riforma Tremonti, sia a regime che per la prima tranche del 2003: alcuni risultati meritano di essere sottolineati. Ipotizzando che la riforma a regime sia basata su:

a)      una esenzione totale fino a 10.329 euro (20 milioni), poi decrescente in modo lineare fino a 30.987 euro (60 milioni)

b)      due aliquote pari al 23 percento fino a 100  mila euro e 33 percento oltre tale importo

c)      eliminazione delle detrazioni da lavoro

d)      trasformazioni delle altre detrazioni in deduzioni dal reddito fino a un reddito di 30.987 euro (60 milioni)

il costo in termini di minori entrate è stimato in circa 26 miliardi di euro (circa 51 mila miliardi di lire). L’analisi cruciale riguarda la percentuale di famiglie che guadagnano o perdono e l’ammontare della variazione:  per il 20 percento delle famiglie con il reddito più basso, cioè per il 1° quintile, la riforma Tremonti a regime comporta un vantaggio per il 47,9 percento delle famiglie, mentre per il 52,1 percento l’imposizione fiscale risulta invariata. La percentuale di famiglie che registrano un vantaggio economico sale dal 47,9 percento del 1° quintile al 98 percento del 5° quintile. Da questi dati risulta evidente che la riforma Tremonti comporta, a regime, vantaggi più diffusi per i redditi più elevati.

La simulazione ISAE per la prima tranche, in vigore dal 2003, si basa sulle seguenti ipotesi:

a)      esenzione totale per i redditi fino a 6.714 euro (13 milioni), linearmente decrescente fino ad annullarsi per 20.658 euro (40 milioni)

b)      eliminazione delle detrazioni di lavoro

c)      accorpamento delle aliquote al 23 percento fino a 25.823 euro (50 milioni di euro), il che comporta un aumento dell’attuale 18 percento del 1° scaglione

Il costo di questa operazione è stimato in circa 8,3 miliardi di euro (16 mila miliardi di euro): per rientrare nelle cifre previste dal DPEF è probabilmente necessario ridurre l’esenzione totale per i redditi da lavoro autonomo. Fissando un limite a 5.165 euro (10 milioni), che rappresenta comunque un netto miglioramento rispetto alla situazione attuale (6 milioni), il costo della prima fase si riduce a 7,7 miliardi di euro, e a 6,7 qualora si escludano dal beneficio i redditi superiori a 25 mila euro.

La considerazione cruciale riguarda, come in precedenza, la percentuale di famiglie che guadagnano, perdono o rimangono invariate. Se consideriamo il 1° quintile le stime ISAE indicano che la percentuale di famiglie che si avvantaggiano è il 47,9 percento, mentre il 52,1 percento delle famiglie non è toccata dalla riforma. La percentuale di famiglie che si avvantaggiano aumenta all’aumentare del livello del reddito fino al 99 percento per il 5° quintile. Anche la prima tranche per il 2003 appare quindi avvantaggiare in modo più diffuso le famiglie con redditi più elevati, pur essendo la manovra orientata sui redditi più bassi (fra 0 e 25 mila euro – Patto per l’Italia). Se, come appare probabile, il Governo deciderà di eliminare i vantaggi fiscali al di sopra dei 25 mila euro, l’effetto sarà quello di concentrare i benefici sulle famiglie con un reddito medio compreso fra 20 e 25 mila euro, lasciando tuttavia invariata la situazione per le famiglie con i redditi più bassi.

 

3.3. Il rischio che la prima fase della riforma Tremonti possa danneggiare i redditi più bassi appare ancora più significativo quando si approfondisca il significato della clausola di salvaguardia, in base alla quale la riforma fiscale non debba andare a svantaggio di nessuna (o quasi) famiglia. Le precedenti simulazioni si basano sull’ipotesi implicita, ma cruciale, che la gran parte delle famiglie disponga di redditi stabili e prevedibili: pur in assenza di studi sistematici è diffusa, e riteniamo corretta, la percezione che la variabilità temporale dei redditi familiari e individuali sia aumentata nel corso degli anni ’90, in particolare per i redditi più bassi (ad esempio come conseguenza della maggiore precarietà dei rapporti di lavoro). In concreto ciò significa che è ormai parte della “normalità” che i redditi annuali possano variare nel tempo per cause congiunturali o puramente fortuite: a quali redditi si riferisce la clausola di salvaguardia ? La clausola di salvaguardia, per essere effettivamente tale, deve scontare il rischio di oscillazione dei redditi, perché in caso contrario diventerebbe problematico distinguere le diminuzioni di reddito dovute a fattori congiunturali o casuali rispetto a quelle dovute alla riforma. Una parte rilevante del 52,1 percento di famiglie i cui redditi risultano invariati in base alla simulazione, potrebbero in realtà registrare una diminuzione del loro reddito, specialmente in una fase negativa del ciclo economico, con conseguenze sociali facilmente intuibili. 

 

3.4. Per comprendere il motivo per cui la prima fase della riforma potrebbe avere conseguenze negative proprio sui redditi più bassi è necessario analizzare il problema della cosiddetta incapienza, cioè la possibilità che una quota delle deduzioni del reddito imponibile risulti inutilizzato e non rimborsabile. Un recente rapporto della Commissione tecnica per la spesa pubblica (dicembre 2001-coordinamento di Paolo Bosi) valuta in 7,5 mila miliardi il valore delle detrazioni incapienti sulla base della legislazione dell’Irpef in vigore al 2001. Abbiamo replicato questa simulazione sulla base di un modello in costruzione presso l’Università Cattolica, considerando le principali categorie di detrazione applicate al campione Banca d’Italia, sulla base della legislazione attuale con un approfondimento per quanto riguarda le tipologie familiari.  I risultati confermano alcune indicazioni della Commissione Tecnica e portano ad alcune indicazioni nuove sul rapporto fra famiglie e incapienza. L’incapienza è un fenomeno consistente e diffuso, che riguarda circa il 21 percento dei contribuenti: il valore dell’incapienza è stato stimato in circa 3,2 miliardi di euro (6,2 mila miliardi di lire – di non molto inferiore alla stima della Commissione Tecnica).  L’incapienza, cioè l’ammontare di detrazioni non rimborsabili, ha alcune importanti caratteristiche:

a)      si concentra nel primo scaglione di reddito e riguarda perciò le famiglie con il reddito più basso

b)      in media corrisponde a un valore pari a 400 euro (all’anno), con alcune importanti differenziazioni per età, area geografica e posizione professionale. Per i disoccupati l’incapienza sale a 800 euro e per gli operai è di 660 euro; e più elevata per le classi di età più giovani e per i contribuenti di età 41-50 anni è pari a 570 euro; è pari a 280 euro al Nord, 320 euro al Centro e 520 euro al Sud

c)      la quota di detrazioni non utilizzate rispetto alle detrazioni totali è pari al 43 percento, con punte dell’80 per i disoccupati e 37 percento per gli operai e i lavoratori autonomi

 

Per quanto riguarda la classificazione per tipologie familiari la situazione è riassunta nelle due tabelle seguenti:

 

 

detrazioni non rimborsabili 2002

TIPOLOGIA FAMIGLIARE Media euro % incapienza
SINGOLO SENZA FIGLI A CARICO 140 13 %
COPPIA SENZA FIGLI A CARICO 210 18%
SINGOLO CON FIGLI A CARICO 660 48%
COPPIA CON FIGLI A CARICO 550 63%
Totale 784 43%

 

Da questi dati risulta evidente che le famiglie con figli, in particolare le famiglie monoparentali, sono quelle maggiormente penalizzate dall’esistenza dell’incapienza. Ciò risulta altresì confermato quando si consideri la distribuzione dei contribuenti incapienti sulla base del numero di figli a carico: la percentuale di incapienti aumenta all’aumentare del numero di figli a carico.

 

Numeri di incapienti per numero di figli a carico (in percentuale)

 

CAPIENZA

 Numero di figli a carico

Totale

 

0

1 2 3 4 5 6

 

 

 

CAPIENTI

83,3%

78,0%

75,0%

65,7%

55,8%

56,6%

43,1%

 79,3%

INCAPIENZA

16,7%

22,0%

25,0%

34,3%

44,2%

43,4%

56,9%

 20,7%

Totale

 

100,0%

100,0%

100,0%

100,0%

100,0%

100,0%

100,0%

100,0%

 

 

L’incapienza è quindi, in primo luogo, un problema legato alle famiglie con figli: la famiglie con figli e basso reddito sono quelle maggiormente a rischio con la prossima riforma fiscale. Quali le cause della pervasività del fenomeno dell’incapienza ? In primo luogo il fatto che proprio in corrispondenza della soglia esente (attualmente 12 milioni per i lavoratori dipendenti e 6 milioni per quelli indipendenti) le detrazioni non sono utilizzabili proprio perché già assorbite dal reddito minimo esente. In secondo luogo perché il sostituto d’imposta dei lavoratori dipendenti, cioè l’impresa, non opera alcun trasferimento se si tratta di lavoro sommerso. In terzo luogo le detrazioni non hanno alcuna efficacia quando si tratti di lavoratori disoccupati perché non essendovi un rapporto di lavoro dipendente non può esservi un sostituto d’imposta: questo è un ulteriore motivo per preferire gli Assegni al nucleo rispetto alle detrazioni . In quarto luogo la normativa per il sostegno ai redditi familiari è complessa quando invece dovrebbe essere semplice e immediata: è probabile che vi siano lavoratori che non utilizzino delle detrazioni pur avendone diritto per il fatto di non essere informati, e anche questa è una ragione a favore di un rafforzamento degli Assegni al nucleo.

In realtà il problema dell’incapienza rimanda a una questione molto più generale e cioè l’assenza nel nostro sistema fiscale di un meccanismo di credito d’imposta che renda rimborsabili le detrazioni non utilizzate. Si tratta di un meccanismo ampiamente sperimentato e diffuso in altri paesi che potrebbe essere introdotto nel nostro sistema senza eccessive scosse, né organizzative né economiche: il vantaggio cruciale è che i principali beneficiari di tale credito sarebbero proprio le famiglie con figli.

 

3.5. I miglioramenti proposti all’attuale sistema fiscale italiano non modificano tuttavia il difetto iniziale d’impostazione e cioè il fatto di aver scelto l’individuo anziché la famiglia come fondamentale unità impositiva: l’esperienza tedesca e soprattutto quella francese forniscono invece un modello praticabile. Il modello francese, basato sul quoziente familiare, può essere adattato senza alcuna difficoltà al caso italiano: il quoziente familiare non è altro che una semplice divisione del reddito familiare per il numero di componenti (1 parte per gli adulti, ½ parte per i bambini) che consente di individuare l’aliquota da applicare alla base imponibile. Le aliquote potrebbero essere, senza alcun problema, quelle prevista dalla riforma Tremonti, anche se con una differenza fondamentale: nell’attuale formulazione la ridistribuzione è a favore dei redditi più alti, mentre con l’applicazione del modello francese la ridistribuzione sarebbe a favore delle famiglie con figli, in particolare quelle più giovani. La tabella allegata fornisce un confronto della fiscalità per la famiglia nel caso italiano e in quello francese: ad esempio nel caso di 20 mila euro all’anno di reddito la famiglia italiana avrebbe un guadagno di circa 3 mila euro.

L’analisi della dichiarazione dei redditi francese indica che il beneficio per la famiglia deriva da una impostazione di fondo che rispecchia da vicino la concezione di un “welfare” dinamico nel quale chi ha bisogno viene “pesato” e non solo “contato”.  E interessante osservare che nella dichiarazione dei redditi francese, fra le spese ammesse in detrazione d’imposta figurano: a) il salario per l’impiego di un lavoratore a domicilio, b) le spese sostenute per gli asili nido e le scuole materne, c) le spese sostenute per il pagamento di case di cura per anziani, d) le spese sostenute per costituire una polizza di assicurazione a favore di un portatore di handicap. Possono essere invece portate in deduzione dalla base imponibile, e rientrare nel calcolo del quoziente familiare, i figli che vivano da soli o si siano sposati ma che ancora non riescano ad avere un’autonomia economica (il termine francese utilizzato per famiglia é foyer, cioè il nostro focolare). Il concetto di catena generazionale, sopra formulato sul piano teorico, trova nel sistema francese una parziale, ma concreta, applicazione.

 

Conclusione e proposte.

 

La conclusione generale di questa analisi è che rimane purtroppo invariata la distanza che separa l’Italia dalla Francia e la Germania per quanto riguarda una consapevole politica economica a favore della famiglia: infatti mentre in Italia sono stati introdotti alcuni piccoli miglioramenti (come l’aumento delle detrazioni per i figli) gli altri paesi hanno anch’essi formulato e introdotto miglioramenti. In Francia il dibattito politico trova un punto di convergenza proprio nel sistema di welfare a favore della famiglia, che nessuna partito politico penserebbe mai di rimettere in discussione. In Germania la campagna politica ha avuto la famiglia come uno temi centrali e vi è da ritenere che dopo le elezioni verranno introdotti perciò ulteriori miglioramenti alla situazione attuale, molto più vantaggiosa di quella italiana.

La riforma Tremonti, pur apprezzabile nel suo sforzo di semplificazione del sistema, risponde solo marginalmente alla questione fiscale della famiglia, diversamente da quanto avviene in Germania e Francia: vi è anzi il rischio che l’attuazione della prima tranche di riforma vada a colpire proprio le famiglie con figli e bassi redditi. Una proposta praticabile è quella di trasformare in crediti di imposta almeno una parte delle detrazioni non rimborsabili, cioè l’incapienza, che riguarda in particolar modo proprio le famiglie con figli. E’ altresì necessario privilegiare lo strumento degli Assegni al nucleo familiare anziché quello delle detrazioni, dopo aver ridotto a due o tre valori la bizzarra selva di importi attualmente in vigore: perché gli Assegni sono uno strumento semplice, comprensibile alle famiglie (e nello spirito della legge Tremonti), liquido e controllabile. Gli Assegni devono essere corrisposti anche ai disoccupati e ai lavoratori indipendenti: i primi finanziati dai contributi sociali e i secondi da un addizionale la cui equità sarebbe accettata se controllabile.

Vi è altresì l’opportunità storica di utilizzare la riforma Tremonti come strumento per un nuovo orientamento del sistema fiscale a favore della famiglia, anziché dei redditi più elevati, semplicemente utilizzando il modello di fiscalità francese, utilizzabile senza particolari problemi amministrativi anche in Italia.

 

7/9/2002

MAURIZIO AMBROSINI (sintesi)

 

Una risorsa inattesa: economia, istituzioni e società civile di fronte all’immigrazione

 

In Italia c’è un immigrato ogni 38 italiani: questo non dovrebbe destare allarme sociale, ma non è così. C’è stato una trasformazione veloce in Italia, passata da Paesi di emigrazione a Paese di immigrazione. Che l’Italia abbia bisogno di manodopera immigrata è un dato assodato. Il fenomeno dell’occupazione straniera, a un’analisi più attenta, si rivela profondamente incorporato nel funzionamento dell’economia e della società italiana.

La maggioranza degli immigrati irregolari non sono musulmani o uomini, ma donne: le troviamo nei giardinetti, che spingono le carrozzine con i nostri bambini o tengono sottobraccio i nostri anziani. Questo è dimostrato anche dalla corsa alle poste per ritirare i kit di regolarizzazione per colf e badanti: ma non mi piace la definizione “badanti”, perché il lavoro di prendersi cura è molto di più. Nell’arco di circa vent’anni l’Italia si è trasformata da paese di emigranti in meta di ingenti flussi migratori. I lavoratori provenienti dall’estero sono disposti ad accollarsi le mansioni più disagiate, precarie, socialmente penalizzate, definiti in inglese come “lavori delle tre D”: dirty, dangerous, demanding.

Un altro tipo di domanda di lavoro immigrato deriva dalle caratteristiche salienti del sistema di protezione sociale italiano, con il paradosso della quasi assenza di politiche esplicite di sostegno alle famiglie. Si tratta di un welfare poco sviluppato, basato in larga misura su trasferimenti di reddito agli individui (soprattutto pensioni) a cui fa da contrasto una minore copertura da parte dei servizi pubblici (per esempio, rivolti alla popolazione anziana). Ai trasferimenti si associa una delega implicita alle famiglie, perché continuino a farsi carico delle domande di cura dei propri membri (“welfare invisibile”, basato sul lavoro non riconosciuto e non retribuito delle mogli-madri), nonostante le fragilità delle unioni, l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del lavoro extradomestico delle donne. Nelle grandi aree metropolitane la domanda si è estesa a macchia d’olio: a Roma e Milano, ad esempio, 3 collaboratori domestici su 4 iscritti all’Inps sono immigrati regolari. Molte donne straniere lasciano nel loro Paese i figli, affidandoli a parenti e anche ad istituti, per poter venire a lavorare in Italia.

Il ricorso alla manodopera immigrata riflette interesse e strategie degli attori dell’economia e della società italiana. Sul piano locale la manodopera immigrata diventa un fattore a cui si può ricorrere per tamponare contraddizioni e storture relative all’incontro tra domanda e offerta di lavoro; ne derivano diversi modelli locali di impiego della forza lavoro extracomunitaria: quello dell’industria diffusa del Centro-nord, quello delle grandi aree metropolitane, quello delle attività stagionali nelle regioni centro-settentrionali, quello delle attività stagionali.

In Italia le reti etniche – nella maggioranza dei casi si tratta di clan a base parentale e di vicinato – hanno espresso un dinamismo notevole per compensare la carenza di iniziative istituzionali per l’accoglienza e l’inclusione occupazionale dei migranti. Le reti di mutuo aiuto degli immigrati sono costituite da familiari, parenti e amici stretti: risorsa essenziale nelle prime fasi di insediamento, in seguito meno importanti oppure fonte di vincoli. Le reti etniche si strutturano e operano a un livello semi-sommerso, particolaristico e frammentario; fra l’altro, aiutano a entrare in contatto con alcuni ambiti della società italiana, in particolare con istituzioni sociali, associazioni pro-immigrati, esperienze solidaristiche, che si attivano per costruire possibilità di accoglienza e ponti sociali. Si vedrà difficilmente un filippino che dorme per strada o va a mangiare alle mense sociali.

Il mondo del volontariato e dell’associazionismo ha promosso l’accoglienza e l’immigrazione.

Possiamo dire che la società recepisce l’immigrazione secondo 3 livelli:

a)                  il sistema normativo, quello cioè del sistema di norme che fissa le coordinate dell’immigrazione ufficialmente accettata in un determinato paese. L’Italia ha percepito tardi la necessità di una politica degli ingressi: solo la legge 40 del ’98 ha segnato una svolta nella programmazione degli ingessi.

La debolezza delle politiche attive del lavoro poi si riflette anche sulle politiche per l’integrazione degli immigrati. Il sistema politico-istituzionale può incidere sulle forme di inserimento nel mercato del lavoro, anche indirettamente. Specie nei servizi alle persone, quando provvede maggiormente il welfare pubblico, c’è meno bisogno di lavoro immigrato, e viceversa; quando è maggiore il controllo istituzionale sull’impiego del lavoro, è più incisiva la tutela sindacale, mentre quando il controllo del sommerso è più blando avviene il contrario. Italia ed Europa meridionale sembrano avere condizioni più favorevoli all’ingresso e all’impiego di immigrati non riconosciuti e non tutelati, che cresce anche nel centro – nord del continente

b)                  la produzione di stereotipi e la discriminazione statistica, relativa alla capacità di integrazione delle diverse componenti della popolazione immigrata, come era già avvenuto per gli italiani e gli europei del sud immigrati in Nord America e Australia. In Italia il rapido sviluppo del fenomeno migratorio rende più insidiose le etichettature: in assenza di precedenti rapporti economici e politici, vengono esaltate le componenti emotive e le relazioni societari sono particolarmente influenti e sensibili a eventi politici (guerra in Kossovo o 11 settembre) e fatti di cronaca. I gruppi ritenuti pericolosi incontrano più resistenze nei processi di selezione, mentre quelli di determinate provenienze vengono considerati adatti a ricoprire certe occupazioni, di solito ai livelli più bassi della società, a prescindere dalle loro competenze. Si scambia l’azione delle catene migratorie che li ha spinti in quella nicchia del mercato del lavoro con una sorta di attitudine importata dalla madrepatria.

Le rappresentazioni sociali dell’immigrazione strutturano le opportunità che nel mercato del lavoro si aprono agli immigrati in cerca di occupazione. I meccanismi della discriminazione statistica però sono mobili e anche rovesciabili, e allora possono innescare una catena di assunzioni a favore di parenti e a mici. Nelle relazioni interetniche poi la tendenza a trattare gli immigrati per categorie collettive etnicizzate può tramutarsi anche in un pregiudizio relativamente favorevole, che si trasmette attraverso il passaparola a tutto l’ambiente locale. Così come vale l’eventualità contraria.

c)                  le iniziative di accoglienza e le istituzioni facilitatici, fenomeno particolarmente rilevante nel caso italiano, in contrappeso alla scarsa regolazione istituzionale di ingressi e accoglienza. Informazioni utili e aiuto nel disbrigo delle pratiche o avvio al lavoro vengono più da questi attori sociali che dalle istituzioni pubbliche o dalle grandi e medie imprese. Si tratta di forme di mobilitazione dal basso da parte di attori sociale che vanno dalla chiesa ai sindacati al mondo dell’associazionismo e del volontariato, fino a coinvolgere i poteri pubblici locali.

Nei contesti locali il sostegno agli immigrati viene prodotto mediante un intreccio, spesso informale, tra operatori pubblici e operatori dell’associazionismo, dei sindacati e delle istituzioni religiose, lavorando su casi concreti e sui margini interpretativi che le norme lasciano alla discrezionalità di chi le applica. Questi attori svolgono funzioni che spaziano dai problemi generali degli stranieri a iniziative specifiche nel mercato del lavoro. Si tratta di: servizi di prima accoglienza, specie per gli immigrati non assistiti da reti etniche efficaci; consulenza e aiuto nelle pratiche burocratiche; informazione sui diritti; supporto logistico per incrementare le possibilità di mutuo aiuto; accoglienza e inserimento e recupero sociale, per immigrati con particolari diritti di tutela. E ancora, insegnamento della lingua e formazione professionale; accreditamento e sponsorizzazione nei confronti dei datori di lavoro; mediazione tra domanda e offerta di lavoro; tutela nei confronti di trattamenti ingiusti e discriminatori.

Tutte queste iniziative però spesso sono più capaci di rispondere alle esigenze di alcune componenti dell’immigrazione rispetto ad altre: i gruppi deboli piuttosto che quelli meglio insediati, o le donne disposte ai servizi alle persone piuttosto che gli uomini o donne con aspirazioni più elevate. E allora i gruppi a dominanza femminile disponibili al lavoro assistenziale trovano appoggio presso varie istituzioni cattoliche, mentre i gruppi maschili a dominante musulmana sono distanti dai circuiti del sostegno cattolico, e non riescono a compensarli con altre risorse.

Emerge chiaramente un divario insuperato tra cittadinanza economica e cittadinanza sociale degli immigrati, che rischia di essere aggravato dalla nuova legge e da concezioni che relegano gli immigrati negli strati più bassi del mercato occupazionale. Cittadinanza, superamento delle discriminazioni e promozione sono temi profondamente intrecciati, importanti anche per la qualità sociale del nostro futuro. Nelle democrazie mature gli immigrati, pure se esclusi dalla cittadinanza politica, hanno accesso a diritti sociali derivanti anzitutto dal lavoro. Da qui prende le mosse la “cittadinizzazione” degli immigrati: un progressivo insediamento sociale nel quale si colloca il ruolo di un’associazione come le Acli - attraverso i patronati, l’Enaip e il sistema dei circoli -, che deve assumere un ruolo di rilevo nella costruzione di una società più aperta e inclusiva, dialogando con le istituzioni e promuovendo progetti locali, come luogo di scambio tra società e istituzioni, inclusi e marginali, appartenenza religiosa e città di tutti. Non solo per ma con gli immigrati, dando voce al loro protagonismo.

 

7-9-2002

Elsa Fornero  (Università di Torino)

 

Mi ha molto compito la riflessione spirituale di questa mattina e credo che sia un bel modo di iniziare un convegno. Parto subito da una domanda. Il governo farà una riforma delle pensioni? Credo proprio di no. Farà forse un altro pezzo di riforma. Perché? Non c’è ancora nel paese una disponibilità verso una nuova riforma. Non c’è un consenso sociale. E’ necessaria una forma delle pensioni? Credo che sia possibile sopravvivere anche senza una riforma al massimo per latri due anni. Nelle riflessioni di ieri e che mi hanno preceduto questa mattina c’era una domanda di nuovo welfare. Una società può scegliere o meno di realizzare una riforma delle pensioni, ma questo ha dei costi. A mio avviso c’è bisogno di una riforma delle pensioni. Ci sono state già tre riforme delle pensioni (Amato, Dini, Prodi) e tanti dicono che non c’è bisogno di un’altra riforma. La commissione Brambilla del precedente governo, di cui ho fatto parte, ha fatto un rapporto sul tema previdenziale, ma è tao messo da parte, come avviene spesso. Quello che è stato fatto finora è da valorizzare, ma l’opera va completata. In quel rapporto facevamo vedere gli andamenti pensionistici revisionali 2020-2050. Gli andamenti demografici che sono avvenuti e che avverranno cambiano il panorama e richiedono una riforma, perché l’attuale appare inadeguata. In sintesi, il sistema previdenziale con il metodo della ripartizione. Lo Stato prende i contributi dei lavoratori e li usa per pagare i pensionati. Ma il cambiamenti  demografico avvenuto inverte i rapporti  determinando una situazione in cui i lavoratori che sono pochi pagano per i pensionati, che sono tanti. Inoltre c’è la questione del genere, del lavoro delle donne, a cui va dedicata una maggiore attenzione. Una questione da affrontare con decisione è quella dell’età pensionabile. Oggi una persona che a 57 anni, con 35 anni di contribuzione alle spalle, se non va subito in pensione perde molto. E’ vero che la sua pensione cresce, ma questo non compensa la perdita di un anno di contribuzione (tra il 50 e il 70%). Allora un persona che ha maturato il diritto alla pensione va via, e magari va a lavorare in nero. Credo invece cha l’età pensionabile vada aumentata. Il sistema previdenziale italiano è fatto di privilegi: le pensioni più ricche sono quelle dei notai, dei giornalisti, dei professori e anche i dipendenti pubblici non stanno male. E’ un sistema previdenziale che presenta gravi squilibri e ingiustizie. La situazione è fortemente squilibrata. Oggi l’INPS ma poche entrate e molte uscite. Il divario, calcolato in maniera realistica, aumenta ogni anno al 4,5% del PIL. Ecco che le pensioni contribuiscono a creare un forte disavanzo che non possiamo permetterci; ci sono anche i vincoli del Patto di stabilità. Se lo stato ha una uscita di questo tipo sul resto deve fare cassa per compensare questa voce. Su chi grava questo debito? Chi deve pagare? Le generazioni future che non hanno scelto, non lo hanno sottoscritto, ma devono pagarlo. Gli immigrati possono aiutarci? Si, ma non basta. Qui c’è un problema di equità tra le generazioni. Rossi, un consigliere del Governo Amato, ora deputato DS diceva: “ Dobbiamo dare meno ai padri e più ai figli”.

Torniamo alle questione dell’innalzamento dell’età pensionabile. L’attesa di vita è aumentata in questi anni di quasi 7 anni, ed allora bisogna adeguarsi a questo cambiamento. Spesso dietro il discorso previdenziale si annidano false solidarietà che sono in realtà costi gravi che gravano sui giovani. Una altra questione importante su cui vorrei soffermarmi è quella delle pensioni private. Sono favorevole al sistema misto, ma deve essere un vero sistema misto. Il TFR deve essere un ammortizzatore sociale e non un modo per finanziare le pensioni private. Vanno bene le pensioni private, ma ben regolamentate. Non si costruiscono le pensioni private guardando agli andamenti borsistici, i problemi del mercato si risolvono in altro modo. E’ necessaria in questo senso anche una educazione finanziaria dei lavoratori. Il mercato privato va bene, ma ci vuol giudizio, attenzione, trasparenza e libertà di partecipazione. Non siamo all’anno zero, la riforma attuale è buona, ma il futuro è lontano. La pensione sicura non esiste più, qualcuno deve sostenere i costi.

Concludo evidenziando due punti nella delega del governo che non condivido: a) ci vogliono i contributi, ma manteniamo la pensione,  c) destinazione del TFR ai fondi pensione. Si tratta di due passi a ritroso.

 

WALTER PASSERINI  Direttore di "Corriere Lavoro"

 

I diritti di formazione

 

Prima di introdurre il tema della formazione, vorrei riallacciarmi a quello che è stato detto sulla Bossi Fini: è una legge sbagliata perché è esclusivamente utilitaristica, in quanto sovrappone il permesso di soggiorno ai contratti di lavoro. La persona non conta. E quindi crea squilibri e disparità implicite. Inoltre è una legge sbagliata perché avrà l’effetto di aumentare gli irregolari.

Poi quando consideriamo il lavoro sommerso dobbiamo considerarlo come fenomeno molto incisivo sul PIL e se vediamo il colore possiamo dire che è lavoro bianco prima che nero, giallo, e così via.. invece che rincorrere piccole sanatorie, serve un politica che possa far rientrare nella regolarità la parte degli imprenditori che vivono nel sommerso.

Passando ora alla formazione, penso che sia una parola che deve essere riempita, alla quale è stata attribuita una valenza, soprattutto, industrialistica, aziendalistica.

Anche la formazione come l’immigrazione è stata utilizzata come evento mediatico. Se ne parla molto ma non succede nulla. Ad esempio non vedo molto interesse, ne competenze per un cambiamento delle modalità di offerta della formazione nel ministero del lavoro. Ora tutto viene delegato dallo Stato alle regioni e noi passeremo molti anni a sentir parlare di quali competenze avrà l’uno quali le altre.

Vorrei schematizzare il mio intervento con alcuni titoli.

1)     Siamo nell’età della conoscenza, in un’economia ed una società della conoscenza. Attraverso il sapere si può cambiare il proprio destino. Parlare, allora di diritti di formazione significa acquisire la possibilità di cambiare attraverso dei diritti la propria condizione. Siamo però anche nella società del rischio. I diritti devono garantire dai rischi ed il diritto alla formazione a questa possibilità. Quando poco tempo fa si parlava della distinzione tra outsideres e insiders nel mercato del lavoro bisognava anche guardare chi è dentro queste due categorie. Non è detto che tutti gli outsiders siano sfavoriti, si pensi agli ingegneri informatici che si offrono sul mercato per le conseguenze, come non è detto che tutti gli insider siano protetti si pensi ai lavoratori nelle piccole imprese. Il tema vero riguarda chi è avvantaggiato e chi invece è svantaggiato. In questa società è comunque la conoscenza che consente un miglioramento della situazione.

2)     Pragmatismo e formazione: molto spesso siamo vittime del detto: fatti e non parole. A volte bisognerebbe invertire parole i fatti verranno.

Questo problema è insito anche nella cultura della sinistra: la formazione è un canale ghettizzato, ad esempio rispetto a quello dell’istruzione., perché si pensa, infondo, che serve solo ai padroni. Da questo punto di vista possiamo dire che non bastano nemmeno le tre iI dei tecnocrati: inglese, informatica e impresa per risolvere tutti i problemi formativi. Poi spesso gli imprenditori non si sono mai occupati di formazione perché non fa parte delle loro priorità.

3)     Una cultura profonda di formazione: oggi la domanda dell’impresa è bassa non alta, le logiche sono dell’addestramento non della formazione. E questo alla faccia della guerra dei talenti. Inoltre l’Isfol sottolinea che sta emergendo il problema dei rientri: ovvero dei giovani che hanno lasciato precocemente la scuola, ora vogliono rientrare nel sistema formativo.

4)     Cultura del lavoro; ci sono tre culture del lavoro: a) il lavoro serve a fare soldi; b) il lavoro è sofferenza e allora non serve la formazione; c) il lavoro è un atteggiamento espressivo e in questo caso scatta il bisogno di formazione. Anche se a mio avviso chi la pensa in questo modo non è la maggioranza. L’obbligo formativo si deve trasformare in diritto formativo, in modo tale che la persona non lo percepisca come un dovere,ma come una sua possibilità.

5)     La formazione come baricentro dei diritti. Oggi i diritti sindacali devono avere al centro i diritti formativi, e in particolare i diritti formativi personali. Molto spesso noi ci preoccupiamo del digital divide, ma oggi dobbiamo anche parlare di educational divide. Questa dovrebbe essere anche una attenzione che riguardi anche gli immigrati. I flussi migratori verso l’Italia dovrebbero essere coinvolti nei processi formativi. Ma sopratutto la formazione deve occuparsi delle persone.

6)     La riscoperta dell’individualismo. L’individualismo è stato di vario tipo. Dobbiamo ridefinire meglio questo termine. Bisogna partire dalle esigenze delle persona che vuole crescere. Un esempio è stato la donna nella famiglia. L’istruzione è stata una bomba in questo caso e le aspettative della donna hanno visto la rinegoziazione dei compiti e degli orari all’interno della famiglia

7)     Quale formazione?. Innanzitutto bisogna rispettare i patti formativi che in questo paese non vengono rispettati. Ad esempio l’Università prolifica i corsi, aumenta gli iscritti, ma produce tanti disoccupati scontenti.

 

Vorrei concludere richiamando Edgar Morin: «Educare alla tolleranza presuppone l’educare alla comprensione…E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.

 

Massimo Campedelli

 

Tutti ieri abbiamo ascoltato alcune interessanti riflessioni sugli elementi strutturali in termini demografici, socio-economici, politici, con riferimento in particolare all’Europa, pastorali, morali e civili. Oggi entriamo nel merito di alcune questioni permettere a fuoco delle linee, degli sviluppi concreti che da ieri e per il futuro siamo chiamati a realizzare. Credo che la prospettiva del welfare che verrà sia costitutiva dell’esperienza delle Acli che si sono poste sempre, fin dalla loro nascita, dentro lo Stato repubblicano cercando di pensarlo in coerenza con la Costituzione. Dall’attenzione alle politiche sociali, all’azione politica, ai processi culturali si sono sviluppati i servizi che le Acli realizzano. Da 15 anni le Alci hanno accettato la sfida del passaggio dal welfare del lavoro, tipo della società fordista, al welfare della cittadinanza sociale. Negli ultimi anni le Acli hanno parlato di welafre municipale e comunitario, della necessità di realizzare una sussidiarietà integrata ossia di tipo sia orizzontale che verticale. Poi si è parlato della “Dote e della Rete”, in termini di un welfare attente all’uguaglianza e alle differenze. Ed ancora la riflessione associativa si è concentrata sulla famiglia (Convegno di Torino), sull’Europa (a partire dal Congresso di Bruxelles) che è diventata una attenzione costante, sul lavoro (con il Progetto lavoro) e sui rapporti tra le generazioni (con la Conferenza Organizzativa e programmatica): con la prospettiva del welfare sempre in primo piano. Tutto questo lavoro concreto e di riflessione dovrà, a partire da quello già realizzato dal Progetto di sviluppo sociale, svilupparlo come de pilastri del programma di quest’anno, per pensare alla prospettiva di un welfare che non lasci nessuno indietro. I nostri relatori ci aiuteranno ad approfondire diverse tematiche, da quella dell’immigrazione, alla previdenza al lavoro, alla famiglia. In questo modo potremo patrimonializzare io cammino fatto per aiutarci a trovare ipotesi percorribili nel futuro. I quattro relatori uniscono una competenza e una attività di ricerca su diversi ambiti e una capacità comunicativa spesa su diversi quotidiani.

 

7-9-2002

Gugliemo Epifani  Vicesegretario CGIL

 

Legare la riflessione sui diritti al tema del welfare è un passaggio fondamentale per le realtà che operano nella tutela dei diritti, come il sindacato. Su questo tema però c’è uno sguardo strumentale: il welfare esiste per misurarsi con i diritti universali ma anche con le novità che si producono nei bisogni di parte della popolazione, o dei lavoratori immigrati. Le tutele individuali sono possibili solo a partire da quelle universali. Né ha senso una contrapposizione tra diversi livelli territoriali, o fra la natura pubblica e privata dei servizi: il welfare è sostanzialmente pubblico, anche se c’è un ampio ruolo per la società civile, un spazio da ricoprire fra chi esprime bisogni e chi questi bisogni deve tutelare, organizzando meglio le domande che nascono dal territorio. Non è possibile però occupare questo spazio ricoprendo tropi ruoli, altriment isi sarà sempre più impresa e sempre meno sociale, mentre il non profit è autentico solo se la finalità resta quella sociale.

Oggi il welfare non può che essere strumento di uguaglianza e occasione per generare sicurezza. Per questo però serve una politica fiscale equa e solidale: quella del governo Berlusconi, secondo me, non va bene. Anzitutto perché non esiste in nessun paese un ordinamento fiscale basato su una sola aliquota contributiva: non funziona e non funzionerà: la progressività sarà tagliata alle radici, riproponendo disuguaglianze crescenti. Quello fra sviluppo e diritti è un rapporto non facile, nel quale vanno ricomposti gli equilibri fra diritti che configgono fra loro. Come Cgil siamo per un’idea più forte dei diritti che coincide con la difesa della dignità di ogni persona. Negli ultimi 10 anni di grande sviluppo abbiamo visto le contraddizioni della globalizzazione; se ora il paese crescesse meno dell’1% ci sarebbe disoccupazione anche nelle zone dove attualmente è scomparsa, andrebbero in crisi i rapporti spesa – Pil, aumenterebbe il conflitto redistributivo. Servono principi più forti di solidarietà: se non c’è sviluppo non si può redsitribuire, altrimenti aumenterebbero le differenze sociali. In questo senso anche la restrizione dell’articolo 18 delo Statuto dei lavoratori assume un carattere ancora più osioso e discriminatorio. Bisogna rendere non ineluttabile il freno dell’economia: le cose non vanno bene e non è detto che miglioreranno. Il governo deve fare un bagno di realismo: non può trasmettere un’idea di bengodi che non c’è, né ritardare provvedimenti ormai necessari. Nel Patto per l’Italia si legge che nel 2003 i prezzi e l’inflazione sono destinati a scendere in Italia e nell’Unione Europea, ma questo succederà solo se si fanno le politiche adeguate: il miracolo economico non verrà da solo. Su molte cose crediamo di avere ragione, anche se in disaccordo con il presidente delle Acli. Fra un anno sapremo avere l’onestà di dirci: avevo ragione oppure ho avuto torto.

 

7-9-2002

Domenico Lucà  Responsabile politiche sociali DS

 

Prenderò in considerazione gli interventi di politica previdenziale e di risanamento economico e finanziario degli anni dei governi del centro-sinistra. Questi ultimi hanno introdotto innovazioni del Welfare anche di tipo legislativo. Negli anni novanta c’è stata una crescita di Welfare anche in corrispondenza con la necessità di risanamento delle finanze pubbliche. Nonostante l’Italia avesse l’indebitamento più alto di tutti i paesi europei  abbiamo esteso il sistema di Welfare. Questo risultato non è stato comunicato adeguatamente. Il governo di centro-sinistra ha lavorato per il rafforzamento del terzo settore per le autonomie locali, per il federalismo sociale, per i servizi civili, per l’associazionismo (riforma dell’Art. 5 della Costituzione, legge 328, legge 285, legge di costituzione delle Onlus). Non è stata data al Welfare una forma istituzionale definitiva. Bisogna darle una forma. Il Welfare oggi è nel guado. Il centro-sinistra su questi temi è chiamato ad esercitare un’opposizione di responsabilità. Bisogna fare attenzione che il governo attuale non modifichi l’impostazione data dal governo di centro-sinistra. E’ necessario continuare l’opera propositiva. Abbiamo fatto tre cose: a) conciliazione sui tempi di vita e di lavoro, b) maggiori servizi c) sostegno monetario.

 

Mario De Aglio Università di Torino

 

Partiamo dal problema della convivenza civile con chi è portatore di una cultura diversa. Questa convivenza deve avere delle norme. Ad esempio nel diritto di famiglia c’è il problema di regolamentare e di armonizzare le differenze tra le tra diverse concezioni Ad esempio l’idea di famiglia degli immigrati di provenienza islamica. Abbiamo parlato poco di globalizzazione. Facciamo un ponte tra diritti e globalizzazione lanciando tre provocazioni. La prima: fino a che punto è necessaria questa globalizzazione? Si è sempre pensato che la globalizzazione di mercato fosse la migliore, ma non è così. Come possiamo coniugare globalizzazione e diversità? In alcuni settori il mercato non può essere globale e quindi c’è bisogno della diversità, in altri è possibile. La seconda provocazione riguarda il futuro demografico.

L’Italia si trova di fronte al problema di pagare le pensioni ad un numero crescente di persone, mentre la forza lavoro tende a diminuire progressivamente. L’Italia ha un basso tasso di natalità e bassi salari.

La terza provocazione è: cos’è il bene comune? Se il mondo è globale allora il bene comune è globale e ci dobbiamo muovere in questa direzione.

 

Anna Diamantopoulou – Commissario europeo per l’impiego e gli affari sociali

 

Sono lieta di avere l’opportunità di parlare con voi. L’argomento che avete scelto è un argomento fondamentale per tutti noi. Il modello sociale europeo è quello del welfare state, che rappresenta uno dei pilastri dell’Unione Europea. Gli obiettivi del nostro modello sociale sono quelli della solidarietà, della giustizia e della coesione sociale che si traducono in azioni concrete tese a realizzare una maggiore parità tra uomini e donne, una  maggiore qualità della vita e condizioni di lavoro meno precario. L’Unione europea è fedele al modello sociale europeo  che rappresenta uno strumento politico importantissimo. Il welfare si è sviluppato i tutti gli stati membri. Questo modello ci aiuta a realizzare una società più istruita e qualificata. Il sistema sociale si trova di fronte a diverse sfide: quella economica, quella della ristrutturazione industriale, del lavoro femminile.

Il governi europei hanno intensificato la cooperazione in riferimento alle politiche di inclusione e di protezione sociale. La Conferenza di Lisbona ha posto l’obiettivo di una Europa più unita e coesa e  obiettivi operativi per i prossimi 10 anni. In particolare ha posto l’obiettivo di 25 mila nuovi posti di lavoro entro il 2010. Di fronte all’attuale situazione di recessione economica va rilanciata una politica di cooperazione che si ponga diversi obiettivi. I particolare: a) aiutare i 60/80 mila uomini e donne a rischio di povertà in Europa; b) rispondere alla crisi delle pensioni; c) estendere la cooperazione al settore sanitario. Serve allora un coordinamento più stretto. Non si tratta di trasferire le competenze e le responsabilità dai livelli regionali e nazionali a quelli europei. Servono però degli obiettivi comuni europei in ambito di welfare. Nei primi tre anni della mia attività come commissario europeo ho lavorato per migliorare la cooperazione promuovere le politiche sociali, economiche e dell’occupazione. Sicurezza sul posto di lavoro, inclusione sociale, lotta all’emarginazione, presenza della società civile, sviluppo del partenariato: queste alcune delle nostre priorità per realizzare un modello sociale degno del modo in cui vogliamo intendere e vivere l’Europa.                  

 

GRAZIA SESTINI  (Sottosegretario al Welfare)

 

Il welfare è argomento di dibattito. La costruzione del futuro delle politiche sociali è complessa, in quanto la modifica del titolo V della Costituzione ha determinato l’invecchiamento della Legge 328/2000  e l’ha resa attualmente inapplicabile; potrebbe diventare applicabile previo accordo tra Stato e Regioni. Queste ultime hanno la competenza esclusiva in un quadro di sussidiarietà  verticale. Due elementi rimangono allo Stato: la determinazione dei diritti essenziali e l’omogeneità territoriale della giustizia sociale. È molto difficile determinare la tipologia del servizio per la diversità dei diversi contesti regionali. Questa è una priorità in vista della determinazione del nuovo piano sociale. I soldi del fondo sociale non sono tanti, ma su questi fondi lo Stato non può fare l’ufficiale pagatore. Lo stato non può erogare un fondo indistinto. Ecco perché serve una determinazione dei livelli essenziali. Lo Stato fa da difensore dei cittadini. Compito dello Stato è trovare sintesi tra domanda e offerta. Cosa vuol dire coinvolgimento? Del mondo del volontariato per i fondi da erogare ai servizi. Questi devono partecipare dall’inizio del processo decisionale. Lo spirito della legge (la 328/2000) è questo! In Italia c’è un volontariato capace a stare a questo tavolo. E questo non è merito nostro. Per noi è importante valorizzare quello che c’è. Stiamo affrontando un momento di stagnazione. Riguardo all’impresa sociale dobbiamo dare forza ad una configurazione giuridica ad una realtà che è oggi riconosciuta solo dal punto di vista fiscale. Invece il mondo del volontariato conta 220 mila realtà, 4 milioni di volontari e 600 mila lavoratori. In un simile contesto ci interroghiamo: “chi è soggetto economico e chi non lo è? Secondo me lo è la Fiat come lo è un’associazione di volontariato che eroga un servizio. Bisogna dare dignità all’impresa sociale. L’occupazione cresce nel terzo settore, in particolare crescono i servizi di assistenza alle persone. Si deve identificare con categorie certe la definizione di impresa. La più grande impresa, il più grande ospedale sono nati da una tradizione della gratuità. In questa esperienza  professionisti e volontari possono e devono essere accanto  per costruire una soggettività. C’è bisogno degli uni e degli altri. Oggi i bisogni sono diversi. L’anziano solo ha bisogno di soldi, ma questi non bastano se non trova una rete in cui inserirsi. Senza un’assistenza non solo di professionisti non risolve il suo problema. Un altro compito dello stato è il monitoraggio e il controllo della spesa. A 3 anni dal fondo sociale e in questi 10 in cui è aumentato l’impegno economico di regioni ed enti locali sul sociale dobbiamo cercare di capire dove sono andati questi fondi, ma soprattutto se questi fondi sono una realtà che risponde ai bisogni. Il governo vuole mettere in piedi un tavolo di confronto con il Terzo Settore per verificare se quello che abbiamo speso e finanziato è la vera risposta ai bisogni. Ma cosa consideriamo come prioritario sulle politiche sociali? Prima di tutto la famiglia. Noi iniziamo assegnando un milione per le famiglie con più di due figli a carico. Le nostre famiglie sono le più tassate d’Europa. Inoltre altre misure prevedono: l’incentivazione alla nuove famiglie, sostenendo l’acquisto e ‘affitto della prima casa, l’aumento del numero degli asili nido; un sostegno agli anziani non auto sufficienti.rispetto al problema degli anziani ci siamo accorti che il sistema socio assistenziale non regge un peso simile. Serve allora un sistema di integrazione, di copertura assicurativa che permetta a questi soggetti di garantirsi la sicurezza di un livello di assistenza adeguata. In Italia ci sono 1 milione e 800 mila famiglie con un anziano non auto sufficiente in casa o in una struttura di ricovero. Nel rispetto delle libertà delle regioni una priorità nazionale è sicuramente questa. Anche la regolazione delle badanti diventa una misura finalizzata ad un sostegno diretto alla famiglia per consentirle di acquistare servizi dove ritiene più opportuno.

Riguardo al libro bianco è all’esame del Ministro. Martedì ci sarà un primo incontro tra le parti sociali. Comunque le linee guida sono queste: politiche giovanili, politiche familiari e l’integrazione delle politiche del lavoro e le politiche sociali. Il lavoro non risponde a tutti i bisogni del sociale ma è l’elemento privilegiato insieme alla famiglia in cui il governo è impegnato. Riguardo al lavoro nel terzo settore vorrei ricordare che metà dei posti di lavoro in Italia si crea proprio nei servizi. Lo sviluppo dell’impresa sociale ha dei risvolti sul mercato del lavoro. Il progetto fertilità ha rappresentato la sperimentazione dell’impresa sociale molto efficace, che ha dimostrato una fertilità di questo mondo, una capacità di fare rete, di inventarsi risposte. Il libro bianco sul welfare dedica un’attenzione specifica alle politiche giovanili, in continuità con il libro bianco dell’UE sui giovani che parla in particolare di autonomia. Le politiche attive sul lavoro hanno un risvolto sociale importantissimo. Riguardo al tema della lotta alla povertà nel patto dell’Italia abbiamo certificato il fallimento del reddito minimo di inserimento. A mio avviso questo  strumento non va abbandonato. Si tratta di un ammortizzatore sociale importante. Se un padre di famiglia perde il lavoro nel tempo in cui cerca un nuovo lavoro ha diritto ad un sostegno personale e per la sua famiglia: il reddito minimo potrebbe rappresentare un aiuto. In realtà il reddito minimo non ha funzionato, perché si è trasformato in un finanziamento a fondo perduto non incentivando la ricerca di un nuovo lavoro. È stata una forma falsa di assistenzialismo va riconvertito restituendogli la sua funzione. Si tratta di far capire il valore di lavoro e recuperare la dignità della persona.

 

ANGELO PASSALEVA  (V. Presidente della Regione Toscana)

 

I livelli essenziali di assistenza (Lea) non competono alle Regioni: occorre garantire a tutti i cittadini parità di diritti. Nella definizione dei Lea devono impegnarsi insieme Regioni e Governo, altrimenti le Regioni si troveranno in difficoltà nello stabilire questi livelli. Ci sono alcuni riferimenti per stabilire alcuni Lea: ad esempio, l’articolo 22 della Legge 328. Deve essere garantito il principio di sussidiarietà, accolto dall’Unione europea, che deve animare le politiche sociali. Inoltre, il principio di prossimità: le istituzioni devono continuare ad essere vicine al cittadino. Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione la 328 è un indirizzo, non più un vincolo.

Non bisogna dimenticare il valore aggiunto del volontariato e dell’associazionismo nella programmazione delle politiche sociali, con il coinvolgimento del Terzo Settore nella programmazione. C’è un fondo sociale indistinto che è stato mantenuto a livello regionale e che può essere collocata nei diversi settori a livello locale (anziani, disabili, ecc.). È importante l’integrazione socio-sanitaria, di cui ha parlato la senatrice Sestini.

Come Regione Toscana stiamo promuovendo dei corsi di formazione di 100-150 ore per le badanti, mercato sommerso e nebuloso che non deve essere regolato solo dal passaparola. Sono contrario alle erogazioni in denaro per le famiglie, ma appoggio un supporto economico attraverso buoni-servizi, spendibili presso enti o persone accreditate. Per disabili e anziani, ad esempio, un’équipe di medici e assistenti sociali stabilisce un percorso da fare e alcuni enti sono accreditati per sostenerli. Infine, per quanto riguarda il Reddito minimo d’inserimento, occorre un accompagnamento e un monitoraggio costante, oltre al coinvolgimento del Terzo Settore. Noi abbiamo stipulato una sorta di Contratto (patto) con il beneficiario del Rmi: se era disoccupato, gli abbiamo chiesto di frequentare corsi di formazione, come requisito per ricevere il contributo; se era nomade, l’impegno era di mandare i figli a scuola e imparare un mestiere. In altri casi – ad esempio, due anziani con una pensione minima – il Rmi assume una connotazione più assistenziale. Come Regione, continuiamo a porre la famiglia al centro delle nostre politiche.

   

BEPPE MATULLI  (V. Sindaco di Firenze)

 

I comuni vivono quotidianamente la sussidiarietà: la finanza locale infatti è strettamente connessa con i bisogni più estremi di sanità e assistenza; sono i comuni che ricevono le parti residuali di quando l’assistenza ha esautoro i suoi compiti, a cominciare dalle situazioni più drammatiche di assistenza domiciliare. Ci si dovrebbe rendere conto che nella spesa sociale la finanza locale ha un posto non secondario, insieme alla spesa previdenziale e a quella sanitaria. È questa la sussidiarietà vera, reale. La legislazione che si è realizzata risponde ad alcune di queste esigenze, ma il rischio è quello di realizzare non la sussidiarietà ma l’autoreferenzialità dei governi istituzionali. Oggi il governo fa passare l’idea che siamo una società di tartassati e che l’obiettivo è ridurre le tasse, e allora a un trasferimento di funzioni a livello locale non corrisponde più il trasferimento delle quote Irpef, ad esempio, necessario nel governo delle autonomie. Le regioni fanno lo stesso, e quindi ai comuni che possibilità restano? Queste tematiche sono state affrontate dalla legge 328, importante – anche se continuamente da aggiornare, come tutte le leggi – perché rappresenta un salto di qualità che cambia l’idea di intervento sociale. La Turco però ebbe in questa direzione la solidarietà del suo governo, mentre i ministri che avevano impostato la riforma della scuola e della sanità, portate avanti per i 4/5 della legislatura, no. Questo è incomprensibile.

Gli ultimi tempi hanno mutato le dimensioni fondamentali della vita: la riforma Turco è ancora attuale, ma il rischio è il mutamento del sistema a cui facciamo riferimento. Livelli minimi di assistenza, diritti inalienabili: sono tutte questioni nelle quali stiamo perfezionando interventi che migliorano il diritto di cittadinanza dei singoli in Italia e in Europa, dimenticando però i diritti negati in tante parti del mondo. In una prospettiva di continuo sviluppo il welfare è legato a questo sviluppo. Ora però siamo davanti a una realtà meno rosea: dobbiamo attenderci tempi difficili, nei quali il welfare sarà legato alle leggi ma anche all’inefficienza e alla mancata riforma della scuola e della formazione, che incidono sul mondo del lavoro in continuo mutamento. La società futura vedrà sempre più scomparire le fasce intermedie: o top manager o Co.Co.Co (collaboratori coordinati e continuatici), senza diritti né prospettive. È anche da qui che nasce la disaffezione dei giovani alla politica. Formazione e scuola invece sono essenziali per un discorso sul welfare, perché creano le condizioni per l’efficacia sociale. In questo senso non esistono formule vincenti ma esistono energie, esiste in particolare il terzo settore, destinato a diventare sempre più protagonista, anche politico, attraverso la testimonianza del fare. Vanno dunque utilizzate in modo razionale le risorse del terzo settore e tutte le energie che la società esprime, ma al tempo stesso deve crescere la responsabilità delle istituzioni nella gestione di queste forze. Il pubblico non deve delegare ad altri soggetti le sue responsabilità ma deve mettere gli altri in condizione di operare al meglio. Oggi si parla di federalismo, di devoluzione, ma poi i comuni non possono aumentare la spesa del 6% rispetto al 2000, anche se reperiscono i fondi, altrimenti sono penalizzati. Allora chiedo: è pretestuoso chiedere non di eludere ma di concertare con i comuni il patto di stabilità? È troppo?

 

Edo Patriarca (Portavoce del Forum terzo settore)

 

Vorrei ricordare quanto abbiamo elaborato come Terzo settore facendo un po’ di chiarezza sui vari dibattiti sul welfare. La cornice nella quale si muoviamo è quella di un welfare promozionale che diventi una risorsa per le persone. Il welfare dovrebbe essere una delle strutture portanti del paese, perché questo possa rimanere ricco. Invece appaiono concezioni di welfare riparatorio, consolatorio. Noi sosteniamo un welfare municipale, in cui la politica ha ruolo importante. A livello municipale serve una politica che aiuti a tutelare i diritti, a sviluppare rete a far crescere la società civile. Come serve produrre una buona società civile, che sappia produrre qualità e prossimità. Una società civile che renda concreta la sussidiarietà, che riesca ad autostrutturarsi. Come Forum pensiamo che il welfare debba fondarsi sulla domanda, sui bisogni, più che sull’offerta. Abbiamo allora bisogno di metterci in ascolto. Si sostiene la necessità di un welfare federalista, ma l’attuale federalismo è confuso. Non ci sono progetti ne a destra ne a sinistra. Questo federalismo è poco programmato e poco progettato ed evidenzia lo spostamento del pendolo verso una concezione individualistica. La nostra concezione di welfare è quella comunitaria. Il welfare deve promuovere educazione, partecipazione, cittadinanza e responsabilità non solo l’assistenza. Deve rappresentare una via di uscita dalla povertà. Preferiamo il termine inserimento a quello di assistenza perché può consentire una uscita da situazioni di difficoltà e di inclusione. Vogliamo una attenzione alla prevenzione oltre che alla cura. Volgiamo essere accoglienti e non solo sicuri. Rispetto a questo quale è il Terzo settore che vorremmo? Vitreo il discorso sull’impresa sociale ci sono due modi di concepire il Teroz settore. Un terzo settore che non si sostituisca al pubblico, perfino Blair sta riflettendo su questo. Il Terzo settore va distinto dal profit. Infatti quando si producono beni pubblici si deve produrre cittadinanza. L’impresa sociale si distingue per sue specifiche caratteristiche. Impresa e sociale sono due sostantivi. Il sociale deve essere connesso con la parola impresa. Il welfare che verrà si costruisce da oggi. Non possiamo non manifestare preoccupazione rispetto alla situazione attuale su come si sta costruendo il welfare che verrà. Lo abbiamo detto a Civitas, bisogna capire l’attualità. Siamo preoccupati perché non vediamo una prospettiva chiara e omogenea. Speriamo che il libro bianco sul welfare sia un’occasione per un confronto che non c’è stato. Siamo preoccupati sulla 328/2000 e non condividiamo il giudizio del governo sull’inapplicabilità di questa legge. Il Ministro Maroni dica una volta per tutte che la 328 è un punto chiave, un elemento di chiarezza, un passo avanti. Chiediamo un governo sulle regioni non oppressivo. Abbiamo chiesto di sostenere questa legge; le regioni vanno per fatti propri. Attendiamo inoltre che si stabiliscano i livelli minimi di assistenza. Non condividiamo il discorso sulle fondazioni bancarie, perché la politica entra nelle fondazioni e ne controlla l’operato restringendo i campi di finanziamento delle stesse, nei confronti del Terzo Settore. Siamo stati inascoltati anche sulla legge relativa all’immigrazione che tocca da vicino il welfare che verrà. Abbiamo chiesto di coniugare sicurezza e accoglienza. Abbiamo chiesto che si aprisse una  politica seria di incentivazione fiscale rivolta alle famiglie. Infine chiediamo un impegno a riscrivere il primo capitolo del V libro del codice civile, perché si possa riconoscere l’esistenza di un’economia sociale. Serve una normativa che controlli, che vigili sulla legalità.            

 

 

7/9/2002

GIUSEPPE GUZZETTI   Presidente Fondazione Carialo  (Laura)

 

È in corso il dibattito sulle Fondazioni di origine bancaria, che di fatto sono un patrimonio ingentissimo (decine di migliaia di miliardi), a cui corrispondono risorse ingenti da erogare, destinate esclusivamente ad attività di utilità sociale. Come si sono formati questi patrimoni? È un elemento dirimente per la loro autonomia. Hanno concorso, Stato ed enti locali, a formare questi patrimoni? La risposta è no: si sono formati localmente, attraverso i risparmi di generazioni di cittadini; questo non vuol dire che nelle Fondazioni non siano rappresentati gli enti. Ma le Fondazioni stanno nella società civile. Quando la legge ha introdotto la separazione tra le due funzioni (società per azioni con caratteristiche finanziarie e nuovi soggetti, cioè le Fondazioni), le 89 Fondazioni italiane hanno affermato la loro natura privata, dimenticando la loro origine bancaria, e vogliono mantenere la loro autonomia, ribadendo il loro legame con il territorio. Tuttavia la legislazione vuole livellare tutte le Fondazioni.

La missione delle Fondazioni si lega al welfare attuale, in cui mancano i soldi e aumentano i bisogni: ad esempio, i malati terminali e psichici gravi, l’edilizia sociale per gli immigrati e gli studenti. Chi provvede ai bisogni più drammatici e urgenti? Provvidenzialmente, accanto al volontariato (che ha una luminosa storia che va difesa e sostenuta, sono comparsi soggetti che identificano queste esigenze e vi rispondono con capacità manageriali (vedi le cooperative sociali). In questo campo la prevalenza degli enti pubblici è un rischio! Vogliamo spostare la missione delle Fondazioni? Il ruolo delle Fondazioni è quello di erogazione: sostenere i progetti che il Terzo Settore, il volontariato, le associazioni presentano.

Non abbiamo velleità politiche; non abbiamo nulla da imparare dalle Fondazioni Usa, legate alle multinazionali, che praticano una carità molto pelosa. Nell’ambito dell’edilizia sociale, esiste una domanda molto grande da parte degli immigrati (ma anche degli studenti e degli anziani) che hanno un posto di lavoro, ma non sono in grado di entrare nella locazione libera. Perché non avere una immobiliare sociale? Su questo abbiamo presentato uno studio di prefattibilità a luglio. Al recupero dell’edilizia degradata potrebbero accostarsi i servizi sociali.

Le Fondazioni vogliono tentare di dare risposte, sostenendo società civile, associazionismo, volontariato, Terzo Settore, onlus: dare soldi perché nel welfare che verrà – con sempre meno soldi - idee e progetti diventino invece realtà.

 

 

Introduce e coordina

RICCARDO BONACINA (Giornalista)

 

Nel contesto attuale è sempre più importante la centralità universalistica dello Stato. Si parla sempre meno di welfare state e sempre più di welfare. Emergono nuovi soggetti, nuovi protagonisti  capaci di individuare i bisogni sociali emergenti. Nella legge 238 è emersa la concezione che nel campo devono entrare i protagonisti di un nuovo welfare che operi più a rete. 

 

 MONS. GIOVANNI NERVO (2)

 

Per costruire il welfare servono soldi: quale può essere l’apporto della Parola di Dio sui modi per costruire benessere per la persona e per la famiglia? Gesù (vedi Mt. 6,25-33) imposta il problema economico a partire da due bisogni essenziali: il cibo e il vestito, invitando a non essere ansiosi, ma ad operare con fiduciosa serenità nella misericordia del Padre, che ha cura anche dei fiori e degli uccelli, tanto più dei suoi discepoli. Essere ansiosi allora significa comportarsi da pagani, ignorando la sua cura di padre. È un paradigma esemplare per costruire il welfare che verrà.

Al centro, dunque, c’è la ricerca del Regno di Dio, che non è in contrasto con la quotidianità, ma è prima del cibo e del vestito, che vengono dati “in abbondanza”. La Parola si rivolge all’uomo programmatore, non per abolire la programmazione del domani ma per rassicurare con la certezza di non essere soli. Emerge chiaramente la centralità di Dio nel creato, e quindi anche la centralità dell’uomo, su cui c’è l’occhio attento del Padre. Di qui il “non angustiatevi”, che vale per chi è alle prese con i problemi del lavoro, della casa, della salute; con i problemi di una famiglia che non si può formare perché manca il lavoro; di un paese che deve affrontare la scarsità di risorse a fronte di uno stile di vita costosissimo; del mondo intero, di cui si parla con prospettive terrificanti del problema della sovrappopolazione. Come si risolve? Con la contraccezione? Con l’aborto? Padre Gheddo parlava della necessità di condividere le risorse per aiutare lo sviluppo dei paesi più poveri: è ineluttabile.

Legato a questo c’è anche il problema dell’ambiente: se davvero mettiamo Dio al centro, e quindi l’uomo, in fedele collaborazione al suo progetto, il Padre ci aprirà la strada per risolvere i problemi che abbiamo sotto gli occhi; altrimenti l’uomo si porrà contro l’uomo, a danno della natura. Nei giorni scorsi, a Johannesburg, si è parlato di queste tematiche come se Dio non c’entrasse con il creato. Il professore Zichichi al contrario parlando delle scoperte di Galileo sul creato diceva che sono state possibili perché ha bussato alle porte dell’autore del creato. La premessa però è chiara: non si può servire Dio e mammona. E questo è uno dei problemi del nostro tempo. Il Vangelo incoraggia ad andare controcorrente, in senso propositivo. La vita dei paesi ricchi oggi è improntata di fatto ad un materialismo pratico, ad un ateismo pratico che non combatte Dio ma lo ignora, mettendo l’economia al centro, come faceva anche il marxismo.

Mi ha molto colpito un articolo di Angelo Panebianco apparso sul “Corriere della Sera”, intitolato “Le vere radici di uno scontro”. L’autore affermava che il vero oggetto dello scontro è la visione del mondo del presidente del Consiglio, che pone il mercato e l’impresa al centro della società. Sono due opposte visioni della moralità.

Alcuni mesi fa i superiori di 226 ordini e congregazioni religiose maschile, riuniti in un’assemblea dell’Unione Superiori Generali, hanno auspicato un’economia alternativa a quella liberista ora prevalente. Infatti, in tale concezione, Dio scompare, oppure diventa una decorazione, non un orientamento di vita; l’uomo diventa Dio di se stesso. È l’impostazione di fondo della Bossi-Fini: si usano gli immigrati fino a quando servono per le nostre aziende e per accudire i nostri anziani. È interessante notare che, prima delle ultime elezioni, la Bossi-Fini è stata formulata come proposta di petizione popolare che portava la firma Berlusconi-Bossi, poi passata a Fini. Veniva presentata come un disegno di legge ispirato a un modello cristiano di società, in opposizione a un modello giacobino multietnico e multirazziale.

Nel 1945, quando ero assistente provinciale delle Acli di Padova, mi colpì uno slogan che vidi su un manifesto: “Dobbiamo fiorire là dove Dio ci ha seminati”. Dobbiamo avere la sicurezza che Dio è presente nel mondo e ci ama, e collaborare con gli altri che non hanno questa luce. Chi non ha il dono della fede spesso non arriva a Dio, ma può arrivare alla sua immagine. Il bene comune deve estendersi a tutti gli uomini: con la globalizzazione, infatti, non può essere ristretto solo nel nostro Paese. Nel 1981 il Papa lo affermava nella “Sollicitudo rei socialis”: la solidarietà non è un intenerimento passeggero, ma una decisione permanente di impegnarsi per la dignità e il bene comune di tutti e di ciascuno. Bisogna avere chiara intenzione di ripartire dagli ultimi e riaffermarlo con forza, come cristiani e come cittadini. Dobbiamo essere dalla parte dei poveri, a fianco degli ultimi, se vogliamo essere con Gesù: è una scelta fondamentale molto attuale, di fronte a una cultura liberista che emargina i poveri. L’Italia, con le modifiche della Costituzione, non è più una Repubblica basata sul lavoro, ma sulla libertà. Quale libertà, però? Nell’articolo 18 cosa si intende per libertà? Come qualcuno che abita nella Casa della Libertà?

La Parola di Dio è un richiamo alla concretezza: viviamo un giorno alla volta e le scelte per il futuro sono quelle che facciamo oggi.

 

TAVOLO DI CONFRONTO

 

Re-inventare il Welfare per l'Italia che cambia

 

Introduzione al confronto

 

LUIGI BOBBA-  (Presidente nazionale delle ACLI)

 

Reinventare il welfare nell’Italia che cambia”: questo il filo conduttore  di questa tavola rotonda che ha subito qualche scossone per l’assenza di Epifani. Grazie a Pezzotta e Angeletti che hanno accettato l’invito e mantenuto la parola data. Ci ha ricordato Michel Camdessus l’importanza di mantenere la parola facendo riferimento ai numerosi vertici, che spesso non mantengono le promesse date. Grazie anche a Sacconi che prende il posto di Maroni. Rispetto a quando abbiamo pensato questa tavola rotonda, è passata molta acqua sotto i ponti e il confronto tra le parti sociali ha subito dei momenti di tensione. Ci muove oggi l’intento di confrontarci civilmente per far emergere i nodi cruciali del welfare che verrà. Per far emergere le necessità del welfare che verrà bisogna a partire dalla situazione in cui si trova il welfare. Abbiamo detto in questi giorni che il welfare deve tendere all’inclusione, non deve privilegi nel circuito del benessere e della coesione sociale. Il confronto tra parti sociali deve affrontare i temi chiave del welfare con tonalità meno aspre e con esiti comuni.

Il percorso dei lavori di queste giornate ha fatto emergere la fisionomia del welfare che verrà che sarà municipale, comunitario e portatitele. Municipale, ossia affidato ai municipi, alla partecipazione dei cittadini; comunitario che valorizzi le reti pronti su territorio; portatile, capace di dare risposte flessibili alla mutevole situazione sociale.

Abbiamo individuato qui a Vallombrosa 4 territori critici: a) l’immigrazione, b) la previdenza, c) la formazione d) la famiglia. Si tratta di terreni di nova equità e cittadinanza.

Ma cosa si attendono gli italiani? Che idea hanno del welafre? Secondo una indagine dell’IREF emergono 3 atteggiamenti, quattro tipologie di persone: 1) i pragmatici, che vogliono un welfare selettivo, che sono convinti che non debba essere garantito tutto a tutti, e sono i più numerosi; 2)  gli idealisti che hanno una visione del welfare univeralistica, capace di coprire la diverse gamma dei bisogni; 3) gli individualisti, che hanno una concezione del welfare minimo, ossia un welfare con meno tasse e che dice ad ognuno di arrangiarsi per proprio conto.                     

 

MAURIZIO SACCONI  (Sottosegretario al Welfare con delega alle politiche del lavoro)

 

Sono lieto di essere qui a Vallombrosa, un appuntamento che segna l’inizio del vostro anno sociale, ala vigilia di un autunno, carico di inquietudini e di incertezze. Abbiamo apprezzato il vostro impegno sulla flessibilità sostenibile che ci avete manifestato in occasione della presentazione del Libro Bianco sul lavoro. L’Italia come l’Europa è impegnata sul tema della formazione, della conoscenza. L’Unione europea ha ribadito a Lisbona e poi a Barcellona, l’ingresso dell’Europa nell’economia della conoscenza, l’importanza della centralità delle risorse umane, della persona. Proprio in questo senso vanno ripensate le politiche sociali. Nell’economia della conoscenza le ragioni della competitività e della giustizia sociale, quelle dello sviluppo economico e dello sviluppo sociale convergono per realizzare lo sviluppo della persona. C’è quindi una tendenza europea che punta alla convergenza, a coniugare le esigenze del mercato, dell’impresa con lo sviluppo e l’autonomia della persona. Allora in questo senso è necessario un ripensamento delle politiche, di cui il primo strumento è la promozione del lavoro.

In Italia abbiamo il più basso tasso di occupazione europeo (54,6% nel 2001), che ha la maglia nera insieme a quello di occupazione femminile; inoltre registriamo il più alto tasso di disoccupazione di lungo periodo: in 12 mesi il disoccupato non riceve né una proposta di lavoro, né di formazione né fa un colloquio. Abbiamo il mercato del lavoro più arretrato d’Europa: di fronte a questa situazione è giusto un assetto immobile? È questo il migliore dei mondi possibili? 36 organizzazioni sindacali su 37 hanno firmato il Patto per l’Italia e hanno compreso la logica del bipolarismo: un dialogo maturo che nasce nella convinzione delle insicurezze e precarietà. Il primo contenuto del Patto è l’infrastrutturazione del mercato del lavoro; stiamo trasformando quello che era un monopolio pubblico. Il decreto prevede un’anagrafe del lavoratore, una rete di servizi, la riforma del collocamento, oltre all’attivazione e all’ampliamento di servizi sociali all’impiego.

Non capisco l’ostruzionismo dell’opposizione al ddl che parla della riforma del mercato del lavoro. Attualmente solo il 3% dei rapporti di lavoro conclusi passano per i servizi all’impiego. Il Patto prevede una protezione per il lavoratore, una forma di tutela attiva. Ci sono, invece, alcune trappole che allontanano i cittadini dall’inclusione sociale. Ma il Patto incrementa i servizi che non costituiscono più protezione passiva ma attiva, proiettata verso il mondo del lavoro. Appoggiamo il pilastro europeo per l’adattabilità del lavoro all’impresa, ma anche dell’impresa al lavoratore. Vogliamo una maggiore inclusione sociale: il lavoro parziale raggiunge solo l’8% in Italia, la media europea si aggira intorno al 18%, mentre il contratto a tempo parziale risponde ai bisogni del lavoratore. Non solo nel Mezzogiorno, ma anche nel ricco Nord-est, lavora soltanto una donna su 2; questo perché le esigenze della famiglia richiederebbero contratti a tempo parziale. Il Patto punta anche a far emergere il lavoro occasionale e a promuovere l’affitto di manodopera, che è una forma di lavoro interinale. Lo scopo del Patto è quello di dare protezione attiva ai tanti che sono esclusi dal mondo del lavoro. Abbiamo lavorato molto in questi mesi per evidenziare il lavoro sommerso, in cui non c’è alcun arricchimento di sviluppo per la persona e non vengono tutelati i suoi diritti alla sicurezza e all’igiene nel luogo di lavoro. Dall’inizio di quest’anno sono state conteggiate dall’Inail 927mila assunzioni. Tuttavia i lavoratori irregolari sarebbero 3 milioni e mezzo.

Anche lo sforzo di riduzione della pressione fiscale è nella logica di protezione dei salari più bassi, che è tra le “ricette internazionali” più riconosciute, e per la dimensione che ha può avere il valore di un contratto. Ci sono poi anche stimoli a incentivare il processo di conoscenza, lavorando a progetti sinergici per trovare convergenze sulla riforma del sistema dell’educazione. Ancora, un importante richiamo alle politiche sociali, già al centro del Libro Bianco. Qui si parla, tra le altre cose, della centralità della famiglia come strumento per il riequilibrio demografico, come fattore chiave di un welfare comunitario. Su questa linea ci siamo collocati, confrontandoci sui servizi di protezione sociale che possono passare dalla conduzione statale a una conduzione di tipo familiare (babysitteraggio, servizio agli anziani, …).

Va evidenziato poi un aspetto legato al modello delle relazioni industriali, che è l’idea di bilateralità, in base alla quale i corpi intermedi, associazioni come la vostra, organizzazioni di imprenditori e di lavoratori, possono governare insieme il mercato del lavoro, il campo della formazione continua, confrontando insieme domanda e offerta, e riservando alle funzioni istituzionali altri interventi, come la formazione in alternanza, quella che accompagna i giovani al primo impiego, o quella a cui sono chiamati i lavoratori in mobilità o in cerca di nuova occupazione. Le organizzazioni imprenditoriali e il lavoratori possono governare insieme i mondi del lavoro, la domanda e l’offerta, la formazione continua. La bilateralità è necessaria anche per certificare le competenze. I CAF e i Patronati hanno la loro funzione, ma il pubblico può recuperare certi tipi di servizi. La società civile deve operare su funzioni in cui il pubblico non si è ancora cimentato. Il modo di procedere nuovo, dal significato strategico importante, è quello di andare oltre gli appuntamenti. Come governo vogliamo controllare i prezzi e le tariffe per contenere le bolle inflazionistiche che si concentrano su alcuni segmenti e che non sono generalizzate. Nel biennio precedente 2000-2001 guardano i conti del pubblico impiego si è registrato uno scostamento dell’inflazione di due punti. Infine un riferimento al modello contrattuale proposto da CISL e UIL. Hanno proposto un modello meno centralizzato che ci vede favorevoli. Questo può dare efficacia in termini di competitività e di giustizia sociale. Mi sembra il completamento del modello di relazioni industriali contenuti nel Patto.   

 

SAVINO PEZZOTTA  (Segretario Generale della CISL)

 

Gli appuntamenti di Vallombrosa appartengono alla mia storia. A me sembra purtroppo che la vera novità di questa stagione è data dal riapparire di forme terroristiche. Mi sembra che noi abbiamo sottovalutato il fenomeno, abbiamo tentato di circoscriverlo, di circoscrivere la vicenda Marco Biagi, ma è un evento in continuità con D'Antona e con tanti episodi di minore gravità.

Attenzione! Questo fenomeno sta riemergendo in un panoram internazionale di terrorismo.

L’attacco alle nostre sedi, le scritte che appaiono, sono segnali che qua e là sottolineano che qualcosa si sta smuovendo.

Dobbiamo essere prudenti, c’è in atto un processo di riemersione del fenomeno. La Riforma quando sono tali hanno bisogno di coesione sociali.

Io non so se il titolo del Convegno sia appropriato: Reinventare il Welfare. Penso sia più utile utilizzare il termine rimodulare, io ho il timore di utilizzare reinventare,. Sono un evoluzionista. Invece rimodulare è più consono ad una mentalità riformistica. Si toglie quello che non va, si tiene ciò che è importante. In questo modo si rinnova.

Tuttavia guardo con preoccupazione anche l’atmosfera politica, dove c’è un linguaggio dell’uno contro l’altro. Noi non  siamo in una dialettica normale e tranquilla tra maggioranza ed opposizione. Noi, abbiamo cambiato il sistema elettorale, ma non abbiamo cambiato le regole del confronto. In questa situazione è difficile parlare di welfare. Quando si parla di welfare, intendo mettere in campo un’idea di welfare che sia garantita dal pubblico. Questo ruolo il pubblico non lo po’ abbandonare. Però bisogna capire come si sostiene un’integrazione della società tra pubblico e privato, tra privato e privato sociale. Qualche elemento di burocratizzazione dovrà essere iniziato per costruire un welfare partecipativo. Noi dobbiamo lottare per l’autonomia del sociale. Ecco il tema della solidarietà e sussidiarietà senza la prima non c’è la seconda. Il welfare diventa sostenibile se diventa solidale. Si fa garante della società civile. Universalità e natura solidale sono i principi che devono fondare lo stato sociale. Inoltre che senso ha il federalismo è una questione che va affrontata lo stato deve ridefinire i rapporti. Servono nuove e differenziate forme integrative e mutualistiche, attraverso la valorizzazione dei corpi intermedi. Queste sono le cose che danno il valore aggiunto ad alcuni elementi. Però un sistema di welfare si tiene solo se tiene dentro questo significa assicurare a tutti prestazioni adeguate. Poi basta parlare di riforma delle pensioni: le pensioni di anzianità non si toccano. Servono invece le pensioni integrative. Magari anche con l’utilizzo del TFR. In questo caso è meglio avere fondi chiusi che aperti, perché con i primi possono avere un ruolo anche le rappresentazioni sociali. Serve una riforma degli ammortizzatori sociali. Questo è solo l’inizio di un processo. Dobbiamo tenere in essere i vecchi ammortizzatori, aprendo una strada ai nuovi. Questa è la strada del Patto che si deve rispettare. Abbiamo fatto compromessi è vero, ma trovatemi un sindacalista che non li fa. Anche sull’art. 18 abbiamo fatto dei compromessi, ma non toccando quelli che già ce l’hanno. E poi l’art. 18 non entra nel computo, come i lavori socialmente utili.

Non sono d’accordo con i condoni, perché generano i circoli non virtuosi. Invece ci si deve occupare dell’evasione fiscale. Lì si dovrebbe intervenire.Bisogna partire dai più deboli.

Noi abbiamo grosso problema nel Sud il Sindacato ne ha parlato. E noi incalzeremo il governo perché i patti vengano rispettati. Quando parliamo di welfare dobbiamo parlare di invecchiamento della società. La non autosufficienza è un problema drammatico per le famiglie. Pensate a una famiglia di operai: cosa succede se c’è una persona non autosufficiente a carico? Abbiamo chiesto al Governo un tavolo sul sociale in cui si parli di non autosufficienza.

Inoltre, quando si parla di welfare dobbiamo pensare a una società multietnica. Già abbiamo espresso la nostra opposizione alla legge Bossi-Fini. Il nostro welfare è basato su una cultura eurocentrica che non è in grado di rispondere ad altre culture. Faccio un esempio semplice: la mensa in azienda; è un servizio sociale che richiede un cambiamento di cultura; gli immigrati hanno determinate abitudini alimentari e bisogna tenerne conto: non è una cosa facile. Se concepiamo la multietnicità come valore, anche lo Stato sociale deve adeguarsi a questa nuova situazione. Occorre riprogettare, dunque, lo Stato sociale, ma per farlo è necessario che la politica si dia regole nuove.

Io faccio sindacato, non un altro mestiere. La situazione economica attuale è molto delicata, più di quello che appare dalle dichiarazioni. Occorre chiarezza sulla situazione, dopo un anno, per collocarla in una dimensione internazionale molto cambiata dopo l’11 settembre: l’economia Usa non è decollata, l’Europa soffre e non è diventato il secondo motore del mercato mondiale. Bisogna avere chiarezza sui problemi veri. Continueremo a chiedere al Governo la riduzione delle tasse, gli ammortizzatori sociali e lo sviluppo del Mezzogiorno: soldi per stimolare la crescita del Paese.

La non autosufficienza è un problema drammatico per le famiglie. Pensate a una famiglia di operai: cosa succede se c’è una persona non autosufficiente a carico? Abbiamo chiesto al Governo un tavolo sul sociale in cui si parli di non autosufficienza.

Inoltre, quando si parla di welfare dobbiamo pensare a una società multietnica. Già abbiamo espresso la nostra opposizione alla legge Bossi-Fini. Il nostro welfare è basato su una cultura eurocentrica che non è in grado di rispondere ad altre culture. Faccio un esempio semplice: la mensa in azienda; è un servizio sociale che richiede un cambiamento di cultura; gli immigrati hanno determinate abitudini alimentari e bisogna tenerne conto: non è una cosa facile. Se concepiamo la multietnicità come valore, anche lo Stato sociale deve adeguarsi a questa nuova situazione. Occorre riprogettare, dunque, lo Stato sociale, ma per farlo è necessario che la politica si dia regole nuove.

Io faccio sindacato, non un altro mestiere. La situazione economica attuale è molto delicata, più di quello che appare dalle dichiarazioni. Occorre chiarezza sulla situazione, dopo un anno, per collocarla in una dimensione internazionale molto cambiata dopo l’11 settembre: l’economia Usa non è decollata, l’Europa soffre e non è diventato il secondo motore del mercato mondiale. Bisogna avere chiarezza sui problemi veri. Continueremo a chiedere al Governo la riduzione delle tasse, gli ammortizzatori sociali e lo sviluppo del Mezzogiorno: soldi per stimolare la crescita del Paese.

 

LUIGI ANGELETTI (Segretario Generale della UIL)

 

La creazione dello stato sociale è stata la risposta principale dei paesi industrializzati europei a quello che sembrava essere uno scontro tra due fondamentalismi. Il concetto di libertà e giustizia sociale è stato il fondamento della costruzione della risposta  che noi  europei abbiamo dato nei confronti di questi fondamentalismi. La nostra civiltà ha sviluppato i due valori di giustizia sociale e di libertà che hanno senso solo se sono coniugati tra di loro.  La libertà senza la giustizia sociale è per pochi; la maggioranza non può godere della libertà essendo oppressa dal bisogno. Si è cercato di lavorare perché si affermasse l’idea che anche nel mercato libertà e giustizia sociale dovessero marciare insieme. Occorre profonda fede per realizzare questi due valori che sono presenti nel profondo delle persone. Dobbiamo affrontare una sfida: garantire lo stato sociale di fronte ai cambiamenti avvenuti: le società europee hanno superato la fase della lotta di classe e della competizione col comunismo. Bisogna passare da un modello costruito per tutelare prevalentemente i lavoratori della grande impresa a un modello che tuteli coloro che non hanno alcuna forma di garanzia.Il secondo cambiamento è quello relativo ai differenti livelli di conoscenze che crea  rischi di esclusione sociale. E’ necessario ridurre questo divario.Il vero gap competitivo tra u.s.a ed Europa sono le conoscenze. E’ necessario ridurre questo gap attraverso maggiori investimenti (scuola, ricerca, formazione).Il sindacato non si può sottrarre alle sue responsabilità sociali e morali. Deve difendere i diritti dei più deboli. Aver firmato il Patto per l’Italia è stato un modo per difendere le condizioni delle persone che rappresentiamo. Anche chi non era d’accordo oggi discute se quel patto verrà onorato o meno.